Tradimento, parola di largo consumo fra Germania e Italia

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Verrat, tradimento. É una parola che rimbalza spesso fra Italia e Germania, fin dai primi anni dell'era volgare quando il germanico Arminio, ufficiale e cittadino romano, voltò le spalle al suo comandante Publio Quintilio Varo e trascinò le legioni nella trappola mortale della selva teutoburgica.

    Ma è soprattutto in età contemporanea che risuona frequente l'accusa di venir meno ai patti, di mancare alla parola data, di tradire insomma, fino a diventare nell'immaginario tedesco uno dei tanti stereotipi a carico degli italiani.

Un'accusa a senso unico? Tutt'altro: dal triste gioco del “chi ha tradito chi” emerge un significativo tasso di reciprocità, e non soltanto per il lontano precedente di Arminio.

Erich KubyCi sono persino esempi altrettanto significativi di autocritica. Prendiamo un libro, Verrat auf deutsch. Wie das Dritte Reich Italien ruinierte, uscito in Germania nel 1982 e successivamente pubblicato in Italia con il titolo Il tradimento tedesco. L'autore, il giornalista Erich Kuby, era particolarmente noto per i suoi attriti giovanili con la Freie Universität di Berlino, alla quale contestava in pieno spirito sessantottesco il diritto di proclamarsi “libera”.

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Verrat, tradimento. É una parola che rimbalza spesso fra Italia e Germania, fin dai primi anni dell'era volgare quando il germanico Arminio, ufficiale e cittadino romano, voltò le spalle al suo comandante Publio Quintilio Varo e trascinò le legioni nella trappola mortale della selva teutoburgica.

    Ma è soprattutto in età contemporanea che risuona frequente l'accusa di venir meno ai patti, di mancare alla parola data, di tradire insomma, fino a diventare nell'immaginario tedesco uno dei tanti stereotipi a carico degli italiani.

Un'accusa a senso unico? Tutt'altro: dal triste gioco del “chi ha tradito chi” emerge un significativo tasso di reciprocità, e non soltanto per il lontano precedente di Arminio.

Erich KubyCi sono persino esempi altrettanto significativi di autocritica. Prendiamo un libro, Verrat auf deutsch. Wie das Dritte Reich Italien ruinierte, uscito in Germania nel 1982 e successivamente pubblicato in Italia con il titolo Il tradimento tedesco. L'autore, il giornalista Erich Kuby, era particolarmente noto per i suoi attriti giovanili con la Freie Universität di Berlino, alla quale contestava in pieno spirito sessantottesco il diritto di proclamarsi “libera”.

Kuby rovescia il luogo comune. Italiani traditori?

Kuby rovescia dunque il luogo comune. Italiani traditori?

Questa etichetta venne applicata dopo gli eventi dell'estate-autunno 1943, culminati nell'armistizio dell'otto settembre e nella dichiarazione di guerra al Reich di poche settimane più tardi.

Ma Kuby non ci sta e corregge il punto di vista.
I tedeschi, o per essere precisi i ferventi nazisti raccolti attorno al loro Führer, non tradirono forse lo spirito e la lettera del patto d'acciaio che li legava a quello che ufficialmente consideravano il principale alleato?
Proprio così: lo fecero per esempio negando informazioni nevralgiche, comunicando a Roma iniziative come l'invasione della Polonia o l'operazione Barbarossa contro l'Unione Sovietica quando erano già in esecuzione.
O addirittura tenendo nascoste certe acquisizioni tecnologiche come il radar, che avrebbe potuto salvare molte navi e molte vite sul fronte mediterraneo. Non misero a parte gli alleati di quel supporto vitale nemmeno quando la regia marina era impegnata a rifornire in Africa settentrionale le forze dell'Asse, che vedevano schierati al fianco delle divisioni italiane i tedeschi dell'Afrikakorps.
 

stampa clandestina RSI     In quel turbinoso '43 le trasmissioni radiofoniche dalla Germania ascoltate dagli uomini della Wehrmacht dislocati in Italia distillavano una furente ostilità nei confronti dell'alleato che aveva gettato la spugna e cambiato campo.

Con l'eccezione, ovviamente, dei camerati fedeli a Mussolini e alla repubblica di Salò.

Nel 2008 da un incontro dei ministri degli esteri Frank-Walter Steinmeier e Franco Frattini scaturì una commissione italo-tedesca incaricata di elaborare quello scottante retaggio.

Nel rapporto pubblicato alcuni anni più tardi la commissione riferisce di quel clima di odio con abbondanza di particolari. Nelle lettere e nei diari dei militari tedeschi si bollavano gli italiani come “popolo di maiali” o “di straccioni”. Qualcuno, condizionato dalla propaganda a proposito della Judenfrage, arrivò a definirli “spregevoli quasi come gli ebrei”.
Il che è tutto dire, considerati i tempi e le circostanze.

Tutto questo fornì una motivazione supplementare agli esecutori di certi ordini, come le rappresaglie e le atrocità contro la popolazione civile, con cui si cercava di arginare la guerra partigiana.

La Triplice alleanza

24maggio1915  cover     In quella violenta polemica anti-italiana si citava spesso un precedente, quello della prima guerra mondiale. Anche allora Roma aveva cambiato campo, la sola differenza  consisteva nel fatto che il mutamento non avvenne durante il conflitto ma prima ancora che esplodesse.
 
Fino alla vigilia della grande guerra l'Italia era vincolata dalla Triplice Alleanza con i due imperi centro-europei.
E allora perché mai si trovò a guerreggiare contro di loro, dopo avere concordato con quelli che dovevano essere i comuni nemici, cioè le potenze dell'Intesa, vantaggi territoriali che l'Austria era disposta a concedere in cambio, almeno, della neutralità?
 
Italiani traditori dunque, e certo non bastava a respingere l'accusa una considerazione di natura tecnicamente diplomatica: la Triplice era un'alleanza difensiva che scattava solo nel caso che una delle parti fosse aggredita. Un articolo del patto esonerava dall'intervento se l'iniziativa della guerra fosse dovuta a uno degli alleati.
Era proprio questo il caso, con le dichiarazioni di guerra formulate da Vienna e Berlino nell'estate del 1914.

Anche allora la denuncia del tradimento ebbe potenti effetti psicologici sulle truppe impegnate in azione.

Altopiano asiago beata Giovanna cover Maria BonomoLa battaglia degli altipiani, la grande offensiva austriaca che il generale Conrad von Hötzendorf sferrò fra il maggio e il giugno del 1916 contro l'esercito italiano, fu informalmente battezzata con il titolo di Strafexpedition, spedizione punitiva. Proprio quel voltafaccia si voleva punire ma com'è noto l'operazione fallì, gli italiani resistettero e respinsero l'offensiva austro-ungarica.

E un anno più tardi, quando la rivoluzione russa sottrasse all'Intesa il grande alleato orientale e decine di divisioni germaniche furono spostate sui fronti occidentali, fu proprio il risentimento anti-italiano a motivare le forze tedesche impegnate nelle valli di Caporetto.

rommel wC'era da quelle parti un giovane ufficiale dei reparti di montagna, Erwin Rommel, che fece il diavolo a quattro conquistando allori e medaglie, e contribuì da par suo a spezzare la difesa italiana.

Proprio lui, il futuro feldmaresciallo destinato, meno di trent'anni più tardi, a comandare un esercito italo-tedesco nei deserti africani...

Le deportazioni dei militari italiani in Germania

     Tornando a quei primi tragici anni Quaranta, ecco un bersaglio italiano preso di mira dai pregiudizi tedeschi.

Si tratta degli internati militari, circa seicentomila soldati e ufficiali che all'indomani dell'otto settembre furono disarmati e avviati ai campi di lavoro in Germania o in altre parti d'Europa occupate dai nazisti.

La loro condizione giuridica era ambigua, prima della dichiarazione di guerra del 13 ottobre non erano protetti dalla convenzione di Ginevra che imponeva regole di trattamento per i nemici prigionieri.

Del resto nemmeno più tardi il Reich riconobbe loro lo status di prigionieri di guerra. Per tutta la durata del loro internamento, venti interminabili mesi per chi fu deportato subito dopo l'armistizio, vissero un'esperienza crudele. Soltanto in piccola parte accettarono, di fronte al dilemma “o con noi o al lavoro forzato”, di riprendere le armi al fianco della Wehrmacht.

Tutti gli altri rifiutarono, praticando così quella che si chiamerà resistenza disarmata. Erano visti come spergiuri, trattati con ben pochi riguardi, costretti a faticosissimi lavori nell'industria degli armamenti bersagliata dalle incursioni aeree e nello sgombero delle macerie, malamente sorretti da una dieta insufficiente. Non a caso fu altissima la mortalità nei campi di lavoro.

 

La loro vicenda è ricordata nel centro di documentazione NS-Zwangsarbeit, aperto nel 2006 nel quartiere berlinese di Schöneweide 

     Molti reduci da quella esperienza ricordano come particolarmente frustrante l'atteggiamento nei loro confronti di una popolazione stregata dalla propaganda nazista.
Non era affatto piacevole, in quelle precarie condizioni di vita, sentirsi apostrofati come colpevoli di tradimento.
In fondo erano stati costretti alla guerra da un regime che non usava interpellare i cittadini: come potevano sentirsi traditori?
L'alleanza, come la guerra, era stata imposta dall'alto, Mussolini sapeva benissimo che gli italiani non gradivano l'una né l'altra.
E poi traditori di chi? Della delirante Germania di Hitler, non certo della Germania generosa di Stauffenberg, del circolo di Kreisau, dei ragazzi bavaresi della Weisse Rose, delle migliaia di disertori, di tutti quei soldati che finirono davanti ai plotoni d'esecuzione perché si erano rifiutati di sparare sui civili.

Se avessero conosciuto gli argomenti di Kuby, i militari internati avrebbero certamente addebitato il tradimento, come lui, alla controparte tedesca. Che non diversamente da Arminio li aveva ingannati, e portati a morire nella selva di Teutoburgo.


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Alfredo Venturi
É nato a Bologna, vive in Toscana. Laurea in Scienze politiche. Giornalista (il Resto del Carlino, La Stampa, Corriere della Sera) attivo in Italia e all'estero. Ha trascorso in Germania il decennio che comprende la riunificazione. Editorialista del settimanale Azione di Lugano. É autore di numerosi saggi di ricerca e divulgazione storica.
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