Perché la nostra indignazione si concentra soltanto sull'Ucraina
Perché si dimenticano i curdi? Perchè si sorvola sull'Armenia? Perché questo doppio standard? Potrebbe essere che abbiamo abbracciato con tutto il cuore gli interessi americani? A rischio di dimenticare i nostri? La posta in gioco non è tanto la libertà dell'Ucraina quanto la nostra, che ogni giorno viene erosa sempre di più.
Le situazioni di crisi difficilmente favoriscono l'esercizio del discernimento. Ciò è tanto più vero nei periodi di conflitto dove – però – questa facoltà si rivela più che mai necessaria. Le legittime emozioni suscitate dagli orrori della guerra e dagli effetti sovrapposti della propaganda polarizzano più che mai le società, e le intelligenze sono rapidamente chiamate a "scegliere il loro campo" che, qualunque esso sia, raramente è quello dell'intelligence.
L'aggressione russa contro l'Ucraina non fa eccezione e restare fedeli a se stessi è più che mai considerato un tradimento per tutti coloro – e sono tanti – che vogliono farci abbracciare la loro fede. Il dilemma è però di dimensioni per gli autentici partigiani della libertà.
Passiamo velocemente alle scuse facili e capziose di Vladimir Putin. Certo, è vero che fu l'Ucraina di Poroshenko, poi di Zelensky, la prima a non rispettare gli impegni presi durante gli accordi di Minsk I, poi Minsk II, sulla relativa autonomia delle province orientali e russofone gente del paese. Certo, la NATO ha effettivamente svolto un ruolo perverso e destabilizzante facendo balenare implicitamente una promessa di adesione all'Ucraina senza mai offrirla esplicitamente. Certo, le democrazie occidentali in generale e l'Unione Europea in particolare si sono comportate in modo inconfessabile come tante spinte al delitto suscitando - anche se necessario creando dal nulla - un risentimento antirusso che non è lontano dal costituirsi oggi l'essenza dell'identità ucraina;
Un'indignazione a geometria variabile
Resta il fatto che i popoli sarebbero liberi di decidere del proprio destino – soprattutto quando lo subordinano alla preventiva attuazione di meccanismi democratici – e che gli ucraini avevano il diritto, come tanti altri prima di loro, di decidere del proprio futuro come nazione indipendente nazione. In quest'ottica, tuttavia, possiamo ancor più deplorare il trattamento vergognoso che il regime di kyiv ha imposto dal 2014 ai suoi cittadini di lingua russa, proprio perché non rientrava in questi famosi meccanismi democratici e perché era la via più sicura per Intervento russo da cui kyiv pretendeva proprio di disinvestire.
Ma la questione che voglio sollevare non è quella. Come molti pensano confusamente, la posta in gioco non è tanto la libertà dell'Ucraina quanto la nostra, che ogni giorno viene erosa un po' di più. Se l'Ucraina non era solo un pretesto per indebolire la Russia, perché questo silenzio sull'Armenia? perché questo silenzio sui curdi? perché questo silenzio sullo Yemen? perché questo silenzio su tante altre valli di lacrime dove la serenità dei criminali si nutre dell'indifferenza – non degli occidentali – ma di chi si forma la loro opinione. Sorge allora subito la domanda: perché il nostro immenso arsenale mediatico dovrebbe cospirare giorno e notte come fa per accertare in modo sovrabbondante i crimini di Vladimir Putin; e non quelli di Ilham Aliev; e non quelli di Recep Tayyip Erdoğan; e non quelli di Mohammed bin Salman?
Per quanto paradossale possa sembrare, la risposta è che Putin e ciò che rappresenta sono i migliori garanti delle nostre libertà. Insisto: delle nostre libertà per noi occidentali, e non ovviamente di quelle degli ucraini. Ovviamente Putin è un bastardo come gli altri. Ma – per usare il noto aforisma – gli altri sono “i nostri bastardi”. Ciò di cui i nostri poteri incolpano Putin non è tanto l'essere un bastardo quanto il non essere loro.
Un lettore frettoloso o malintenzionato potrebbe pensare che io escluda da queste poche verità l'idea che la vita sarebbe più dolce sotto il dominio russo. Certamente no, c'è bisogno di specificarlo? Ma in un mondo in cui si scontrano grandi blocchi totalitari, la libertà dell'Uomo sussiste solo ai margini, solo ai margini, solo in queste zone di subduzione che solo il loro confronto preserva dalla solidificazione monolitica. Ovunque il libero pensiero sta appassendo, sia sotto lo spietato stivale dei tiranni orientali sia sotto il soffocamento intellettuale che sono diventate le democrazie occidentali.
La libertà ha bisogno di un mondo multipolare
Pochi profeti – da Georges Bernanos a Jacques Ellul e da Pier Paolo Pasolini a Ivan Illich – l'avevano vista con una preveggenza da far rabbrividire: servita da una tecnica sempre più invadente, una società con il conformismo senza dissenso. Dove i buoni vecchi totalitarismi dovevano accontentarsi di una facciata di adesione, il totalitarismo postmoderno ha i mezzi delle sue ambizioni, quella di controllare, rieducare e addomesticare le masse con incredibile finezza e profondità. Gli argomentatori che affermano che le democrazie garantiscono il pluralismo dove i sistemi autoritari impongono la voce dello stato sono scherzi.
In un recente articolo su Le Figarò, Gabriel Martinez-Gros afferma che “la guerra in Ucraina è caratteristica di queste resistenze [contro gli imperi]. La Russia non è l'impero descritto qui, ma uno stato-nazione. L'impero siamo noi: l'Occidente”. La prima affermazione sulla natura di stato-nazione della Russia è certamente discutibile. La seconda sull'impero e la sua religione postmoderna che rappresentiamo lo è molto meno. Questo impero può essere apparso a lungo benigno a causa di fattori che si alimentavano a vicenda: l'esistenza di una minaccia in termini di un progetto ideologico globale concorrente – il comunismo – e la relativa moderazione delle pratiche politiche di un sistema liberale che doveva fare i conti con questo concorrente le cui esche capziose hanno sedotto e seducono ancora tanti nostri compatrioti.
La scomparsa del comunismo ha portato l'impero liberale a gettare via l'ormai inutile maschera della democrazia per imporre autorevolmente – e con crescente brutalità – i propri dogmi religiosi. Se è di moda denunciare le democrazie illiberali, ciò non deve nascondere il fatto che oggi viviamo un liberalismo antidemocratico: questo liberalismo integrale – economico e sociale, totalmente sfrenato – non si prende più la briga di nascondere l'avidità cinica e illimitata che costituisce la sua primavera psicologica e si propone di distruggere con una violenza decuplicata gli Stati-nazione e le loro istituzioni che giustamente percepisce come le ultime dighe capaci di frenare la sua onnipotenza.
La strategia dello shock impiegata provoca uno stato di smarrimento nelle nostre società che ne sono le vittime, esattamente come un pugile stordito in piedi non sente più nemmeno i nuovi colpi che lo abbatteranno. Non contiamo più i fatti accertati che – anche dieci anni fa – avrebbero gettato il popolo in piazza e oggi provocano solo una fatalistica alzata di spalle: le prove della corruzione di Ursula Von der Leyen? alzata di spalle; il prezzo dell'elettricità nucleare indicizzato a quello dei combustibili fossili? alzata di spalle; il nostro graduale ma irrimediabile ingresso nello status di cobelligeranti ausiliari dell'impero? alzata di spalle; l'extraterritorialità del diritto commerciale americano e correlativamente l'esenzione legale con cui gli Stati Uniti pretendono di proteggere i propri cittadini dalle leggi degli altri paesi in cui risiedono? alzata di spalle.
Per questo dobbiamo sperare in un mondo multipolare. Perché – a parte l'improbabile ipotesi a breve termine del loro crollo – è proprio dal loro ineludibile confronto che, l'uomo libero ma senza potere può ricavarsi una sorta di terra di nessuno sulla quale poter sperare di sopravvivere in futuro.
Copertina. Il razzismo imperante. Un afroamericano con la foto di George Floyd morto soffocato dal ginocchio di un poliziotto premuto sul suo collo.
Laurent Leylekian è direttore di "France-Arménie" mensile della comunità franco-armena. È stato anche direttore esecutivo della European Armenian Federation for Justice and Democracy, a Bruxelles. In questa veste, ha partecipato al ripristino della causa armena all'interno dei negoziati di adesione della Turchia all'UE.