{fa-info-circle } Artikel nur in Muttersprache - Article only in mother language.
Non ti lascio andare via, neanche se me lo chiede il partito. Così scriveva il "Migliore", diremmo oggi postava, alla sua amata. Sembra una spacconata, ma cos'ì fu dal 46 e per il resto della sua vita, fino alla morte, un amore "clandestino" lungo 18 anni. Davvero complicato anche per una coppia così "imponente" in un'Italia intrisa di cultura cattolica, in un PCI così bloccato nel pudore, nei diritti, nel maschilismo imperante.
A Nilde le donne debbono veramente tanto, non era e non fu mai, una femminista. Ma lottò sempre, con un coraggio, per la parità e l’emancipazione della donna (non per “la liberazione”, termine che non amava e la distingueva), per la costruzione di una nuova, più moderna immagine del rapporto di coppia.
Parlamentare europea, è la mente della riforma del diritto di famiglia, quello che equipara i coniugi e i figli legittimi e illegittimi. Ed è lei, sempre lei, a promuovere la norma sul divorzio e quella sull’aborto. Femminista? Non nel senso classico perché Nilde non scende in piazza, non protesta, ma cambia le leggi.
«Nella vita potrei accettare di tutto» scrive. «Tranne che di non lavorare e di non essere me stessa».
La dedizione assoluta per l’Italia e per il Parlamento.
Nilde Iotti, è stata una delle più grandi politiche italiane ed il suo ricordo limpido e trasparente risuona ancora più forte oggi, mentre ancora le donne lottano per ottenere ruoli forti nei partiti e nella società.
Sarà tra le poche donne all’Assemblea Costituente per scrivere le leggi che faranno l’Italia repubblicana e la sua Costituzione.
Nilde non è certo un tipo timido, che resta nell’ombra: sempre decisa, non fa sconti a nessuno, nemmeno alle sue compagne. Le sprona, le rimprovera «perché» dice «non agiscono in modo risoluto e si fanno calpestare dai colleghi uomini».
Ha già chiaro il significato della sua missione, una politica pratica, che spinga la vita vera.
Tanto che la chiamano a Roma all’Assemblea Costituente, proprio per scrivere le leggi che faranno l’Italia.
Si discuteva, nella “commissione dei 75” che preparava la bozza della Carta, di un passaggio (poi sparito con un voto dell’Assemblea) dell’art. 106, quello sull’accesso in magistratura.
Una prima versione prevedeva che “anche le donne” potessero partecipare ai concorsi ma solo “nei casi previsti dalle norme sull’ordinamento giudiziario”.
Cosa che non piaque sopratutto al socialista Ferdinando Targetti, più tardi e a lungo vicepresidente della Camera: “Chiaro, qui c’è il pensiero e la finalità di limitare l’ammissione delle donne in magistratura. Io invece non vedo alcuna ragione per quella che è una trasparente limitazione dell’accesso delle donne.
Di più, non si può da un lato ammettere la presenza, graditissima e utilissima, di tante egregie colleghe nella Costituente, ammettere che la donna posa salire su una cattedra universitaria, e dall’altra negare che la donna abbia le attitudini necessarie per diventare anche consigliere di Cassazione!”.
Ribatté il democristiano Giovanni Leone, poi abile presidente della Camera, poi discusso presidente della Repubblica:
“Già l’allargamento del suffragio elettorale alle donne costituisce un primo passo (…) ma la loro partecipazione illimitata alla funzione giudiziaria non è per ora da ammettersi.
Magari sia ammessa al tribunale dei minorenni: sarebbe per esse una ottima collocazione.
Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”.
Ma altre due democristiane, Maria Federici ed Angela Gotelli (sarà un caso che, come la Nilde era stata staffetta nella Resistenza, così fossero anch’esse due ex partigiane “bianche”?), ribatterono, l’una furiosa per quel riferimento alla “tradizione”, e l’altra: “Voi volete lasciare indietro le donne!”.
Interruzione di altro costituente dc, Giuseppe Codacci Pisanelli:
“No, è una questione di resistenza fisica, le donne si stancano di più…”.
Fu qui che Iotti reagì:
“Motivi stupefacenti! Se una donna ha la capacità di arrivarci, e sono convinta che ce l’abbia, essa deve poter conquistare, al pari dell’uomo, i più alti gradi della magistratura, senza alcun discrimine”. E avvertì: “Attenzione: abbiamo appena approvato nella prima parte della Costituzione una norma-chiave: che tutti i cittadini non solo sono uguali ma che tutti, donne e uomini, possono accedere a tutte le cariche pubbliche”.
Il principio del libero accesso delle donne in magistratura sarà infine pienamente accolto dall’Assemblea.
Ma, per passare dalla teoria ai fatti passeranno parecchi anni: solo nel 1963 le donne cominceranno ad entrare effettivamente nei ranghi della magistratura. E della diplomazia: anche qui escluse per quasi vent’anni dalla Farnesina.
Dal 1946 il Parlamento diventa la "sua casa", insieme alla sede del Pci.
Ogni giorno seguirà un rito: salutare i commessi di Montecitorio e non sono gesti di circostanza, Nilde ricorda i loro nomi e sa se il figlio di uno ha la febbre o magari problemi a scuola. Sa che bisogna prendersi cura delle persone per farsi rispettare.
«Dobbiamo far entrare nella politica l’esperienza quotidiana, le piccole cose dell’esistenza, costringendo tutti a fare finalmente i conti con la vita concreta dalle donne» dice in uno dei suoi discorsi.
Una visione per l'Europa
Nilde Iotti è diventata membro del Parlamento europeo nel 1969. La sua priorità in quanto deputata al Parlamento europeo è stata quella di arrivare a elezioni aperte in cui i cittadini europei potessero eleggere direttamente i loro rappresentanti. Iotti riteneva che ciò avrebbe dato al Parlamento un mandato indiscutibile e la credibilità di agire in nome del popolo.
Il suo impegno e quello dei suoi colleghi è stato premiato nel 1979 con le prime elezioni dirette del Parlamento europeo. Poco dopo si è dimessa dal suo incarico di eurodeputata durato 10 anni, durante i quali aveva fatto parte anche della Commissione parlamentare per gli affari esteri. Nel 1997 è stata eletta vicepresidente del Consiglio d'Europa, l'organizzazione per i diritti umani che comprende 47 Stati membri.
Il diritto di Famiglia
Nel 1975 fu la prima, ad intervenire con una organica riscrittura di quello che divenne il “nuovo” diritto di famiglia, rispetto a quello definito dal fascismo nel 1942 e che ormai faceva a pugni con i principi della Costituzione. Basterà ricordarne i cardini per sommi capi: il riconoscimento della parità giuridica dei coniugi, l’abrogazione dell’istituto della dote, il riconoscimento ai figli naturali della stessa tutela prevista per i figli legittimi, l’istituzione della comunione dei beni come regime patrimoniale legale della famiglia in mancanza di diversa convenzione, la sostituzione della patria potestà con la potestà di entrambi i genitori.
Legge sul Divorzio
E non sono da dimenticare le battaglie ostinate non solo di Iotti ma anche di Adriana Seroni, di Marisa Rodano, di Livia Turco, di altre dirigenti del Pci, prima per introdurre il divorzio e per affermare la liceità dell’aborto, e poi per difendere le due conquiste di civiltà dagli attacchi referendari sostenuti dalla chiesa e dal centrodestra. In tutte le occasioni (riforme e tentativi di controriforme).
Nilde non esitò a scontrarsi nel gruppo dirigente con quanti in verità non contestavano il merito ma ne temevano fortemente le conseguenze: improvvidi strappi parlamentari prima, e poi pesanti sconfitte referendarie.
La Iotti fu la prima firmataria per il Pci della proposta per l’introduzione del divorzio presentata da tutte le forze laiche “con il pieno accordo di Longo” – allora segretario del Pci, ma pochi oggi ne ricordano il coraggio politico, la forza, l’apertura ai giovani del Sessantotto, la civiltà e la modestia – ma anche con “il mal di pancia di alcuni” della direzione.
Quanto al referendum contro l’abolizione dell’appena introdotta possibilità di interrompere la maternità (il no vinse con più del 68%: “Nessuno aveva mai osato prevedere nel suo pessimismo ciò che poi di fatto è accaduto”, parole del cardinale Giacomo Biffi), è noto che l’allora segretario comunista Enrico Berlinguer ed altri membri della direzione fossero assai preoccupati del suo esito, soprattutto nel Mezzogiorno dove invece il no all’abolizione dell’aborto si affermò largamente anche e proprio per la scelta delle donne che avevano tragico ricordo delle pratiche clandestine e delle mammane.
Enrico Berlinguer riconobbe immediatamente i meriti, le ragioni, il fiuto di Nilde: ed incontrandola l’indomani del risultato del referendum al piccolo ascensore del Bottegone, quello riservato ai dirigenti del partito, le sorrise, si congratulò, le strinse la mano con un calore insolito per lui, apparentemente sempre così sorvegliato.
Un inedito Berlinguer, ricorderà sempre Nilde con nostalgia di quel momento.
Si era agli sgoccioli della nona legislatura, che s’interruppe nell’estate del 1987, un anno prima della scadenza naturale, per la rottura dell’alleanza di centro-sinistra.
Il precipitare degli eventi ebbe tempi tumultuosamente rapidi, tali da rischiare di compromettere in extremis una piccola ma preziosa riforma cui Nilde (e non solo lei) teneva moltissimo.
La legge del 1970 che aveva introdotto il divorzio aveva posto un ostacolo serio alla libertà degli ex coniugi: che passassero, per ottenere lo scioglimento del matrimonio, almeno cinque anni di separazione legale. Lunga trattativa con il centrodestra e si ottenne l’accordo almeno per una riduzione da cinque a tre anni della separazione. Un piccolo passo avanti.
Approvata dal Senato, la leggina era ferma in commissione alla Camera quando si comprese che da un giorno all’altro, anzi da un momento all’altro, il capo dello Stato avrebbe sancito la fine della legislatura.
Nilde convocò d’imperio la commissione, ottenne l’unanimità dei gruppi perché deliberasse in legislativa (cioè “saltando” il momento della discussione in aula), strappò il sì finale e definitivo, vinse la sua battaglia letteralmente sul filo di lana.
Un’altra cosa faceva di Nilde una personalità politica eccentrica rispetto ad autorevoli colleghi (con altre eccezioni: Napolitano, D’Alema, Fassino) ed era la passione e l’impegno per la politica estera.
Deputata al Parlamento europeo per un decennio, con rammarico aveva lasciato il seggio quando eletta presidente della Camera; ma non interruppe e anzi intensificò, ad altro livello, i rapporti internazionali.
Anzitutto introdusse la pratica degli scambi di esperienze parlamentari e non solo nell’ambito dell’allora “piccola Europa”.
Da presidente della Camera diede nuovo impulso ai contatti istituzionali e non solo nel nostro continente.
Andò in Cina, per verificare le novità introdotte da Deng.
Non fu una visita-lampo ma venti giorni per girare in lungo e in largo città, campagne, nuovi territori industriali; e per incontrare quelli che allora erano i nuovi dirigenti del Pcc, a cominciare dal leader di fatto Deng Xiaoping (teorico del cosiddetto socialismo di mercato), dal premier Zhao Zijang, e dal segretario del partito Hu Yaobang.
E andò in quella che ancora era l’Unione Sovietica per capire bene, incontrando due volte Michail Sergeevic Gorbaciov, che cosa rappresentasse (“nella società più che nel solo partito”) la perestrojka, dove andasse a parare, quali potessero esserne le conseguenze.
“Porterà lontano, molto lontano, quest’uomo. Bisognerà però vedere se ce la farà o se sarà sconfitto, e come, dalle resistenze interne”, disse a cena nell’antica sede diplomatica moscovita, all’ambasciatore Sergio Romano. Un Romano che cercava di smorzare con educazione l’ottimismo dell'argomentazione pur prudente di Nilde, e che rispose: “Un fenomeno, una meteora. No, non cambia né cambierà nulla”. Ci furono momenti di imbarazzo tra alcuni presenti per il tono così liquidatorio anche perchè aveva la caratteristica di una sottolineatura forte al fatto che quella cena non era proprio il luogo esatto dove esternare i complessi sforzi politici della Farnesina.
Nilde riportò, come da ruolo di presidente, le sue impressioni al presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita, e al ministro degli Esteri, Giulio Andreotti, sottolineando che la sottovalutazione di quello stava avvenendo in questi stati dell'est avrebbe potuto avere conseguenze politiche serie nello scacchiere mondiale.
Naturalmente la storia politica ci consegna dei ricordi opachi di quelli che furono gli atti di governo che seguirono, quello che è certo è che De Mita ebbe una analoga visita al Cremino qualche mese dopo, incontrando Gorbaciov e altri dirigenti del Pcus ed anche dissidenti del livello di Andrej Sacharov.
De Mita aveva della perestrojka e di Gorbaciov opinioni analoghe a quelle raccolte negli incontri con la premier inglese Margaret Thatcher, col cancelliere tedesco Edmund Kohl, col presidente francese François Mitterrand, e persino con Ronald Reagan e una conseguente visione di politica internazionale del tutto orientata a conservarne i rapporti.
Al pranzo ufficiale in ambasciata, De Mita disse la sua e citò i grandi della terra. L'ambasciatore lo lasciò parlare ma replicò le parole già espresse e sintetizzabili in un pranzo pubblico con un: “A Mosca non sta cambiando un bel niente”.
Al ritorno a Roma, De Mita andò a parlare con Nilde Iotti: due ore di esame della situazione politica, delle vicende del Pci, dell’Unione sovietica. E di Gorbaciov.
Poi mosse le sue decisioni certamente non proprio in linea con le tradizioni dei rapporti tra Farnesina e Governo.
A fine gennaio il Consiglio dei ministri decise di nominare nuovo ambasciatore a Mosca Ferdinando Salleo. De Mita lo incontrò alla firma di un accordo commerciale Italia-Iraq e lo salutò dicendogli: tavarich!: il preannuncio della nomina.
Sergio Romano abbandonerà immediatamente la carriera e divenne editorialista del Corriere della Sera.
Anche in un’altra occasione Nilde ebbe modo di dispiegare con prontezza e abilità il suo debole per la politica estera.
Fu verso la fine del caotico congresso di Rimini che, mentre segnava ufficialmente il passaggio dal Pci al Pds. Verso quel fine-congresso lo scontro sembrava esasperarsi sulla questione della presenza militare italiana nel conflitto irakeno. Diciamo che tra pacifismo vecchia maniera e accettazione del fatto compiuto, il congresso sembrava incapace di una linea autonoma. E fu Iotti, a proporre una piattaforma politico-militare che risolvesse allo stesso tempo la questione del Kuwait e l’esigenza di bloccare un’espansione del conflitto.
Dal luglio del 1979 presidente della Camera, prima donna comunista ai vertici dello Stato.
Scendeva di buon mattino dallo studio giù in buvette per il caffè ma con l’usuale discrezione: mai si sarebbe fatta precedere da un capo commesso in guanti bianchi come pretese qualche suo successore.
Salutava per prima i dipendenti che incontrava, rivolgendo loro una parola gentile, informandosi del problema di questo o di quell’altro.
Impose che i concorsi e i ruoli non solo delle impiegate e delle funzionarie ma anche dei commessi fossero aperti alle donne: una vera rivoluzione per un ambiente sino allora fortemente maschilista, e non s’immagina quanto grande fu la sua gioia quando ricevette a studio Giovanna Forteleoni e Patrizia De Lucia, le prime assistenti parlamentari donne, e Fulvia Zampa e Rosa Gonfalone, le prime donne addette alla buvette.
Oggi sono tante, come tante sono le funzionarie con responsabilità sempre più elevate.
Già Presidente, qualche mese più tardi durante una visita ufficiale a Venezia, Nilde si era riservata un paio d’ore (come suo costume adorava ritagliarsi qualche momento di libertà anche nella più acuta stagione dei terrorismi) per una visita privata, non annunciata, in un museo. Non chiese alcun privilegio nell’accesso, si mischiò alla folla, commentò qualche particolare con un paio di collaboratori.
Ad un tratto un gruppo di suorine si accorse della presenza di Nilde. “E’ lei, è lei!”, dissero festose correndo ad abbracciarla.
Un compagno di quella che allora si chiamava la vigilanza (un “di più” offerto dal Partito rispetto alla scorta istituzionale) ebbe un moto di stupore, senza far nulla per nascondere un mix di meraviglia e di fastidio.
Iotti restituì l’abbraccio e scambiò qualche parola con le suorine in un clima festoso ma rattenuto: si era comunque in un museo, non bisognava disturbare gli altri visitatori. Ma a Nilde non era sfuggita la sorpresa di quel compagno. E allora, più tardi a tavola, gli si rivolse con un sorriso radioso esclamando: “Ma sono donne anche loro!”.
Sulla poltrona siede per 13 anni, sempre impeccabile, mai esagerata. Neanche quando, durante una votazione, un parlamentare radicale le lancia il tomo della Costituzione, sfiorandola. Lei non cede: il suo rispetto per le istituzioni è sacro, più forte di tutto, anche dei sentimenti. Già, le emozioni rimangono nascoste, una signora in politica non può mostrarsi troppo umana.
Uno degli atti più forti, il più fiero, compiuto da Nilde nei tredici anni al vertice di Montecitorio seguì di poco il successo del referendum sulla preferenza unica, giugno 1991.
Si era appena a un anno dalla conclusione naturale della decima legislatura (la terza, e presumibilmente l’ultima da Iotti-presidente della Camera).
Bettino Craxi, segretario del Psi, aveva approfittato di quel voto per teorizzare, lui ma non il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, che la sorte della legislatura fosse segnata da una pretesa delegittimazione di un parlamento, l’oramai famoso “parco buoi”, eletto con il vecchio sistema.
Iotti non ebbe dubbi: anticipò il dubbioso presidente del Senato Spadolini, e si espose pubblicamente con un “no” intransigente allo scioglimento anticipato, un “no” dettato non dall’intendimento di blandire l’interesse corporativo dei deputati ma per affermare il principio che la sorte e l’autorità di un’istituzione suprema come il Parlamento non possono essere piegate all’interesse contingente dell’una o dell’altra parte politica.
Vinse la partita, Nilde, anche contro il trasparente sostegno di Cossiga alla tesi di Bettino Craxi: non da sola certo, ma aiutata dal rilevante suo peso istituzionale e dalla sua forte influenza politica.
Capitolo chiuso? Sarà una coincidenza, ma fu in quelle stesse settimane che i più stretti collaboratori di Nilde trasferirono un’indiscrezione: Francesco Cossiga, allora nel pieno del suo picconaggio dal Quirinale, intendeva offrire alla presidente della Camera, come discretamente avrebbe di lì a poco offerto, il seggio di senatrice a vita.
Un gesto di considerazione o, come qualcuno riterrà con perfidia pari all’intensità delle polemiche contro tutto e contro tutti scatenate dal Colle, un’operazione all’insegna dell’antica pratica del promoveatur ut admoveatur?
Fosse o meno questo il disegno che, s’inseriva comunque in un momento di tensione tra i due Palazzi, certo è che Iotti sarebbe stata costretta a lasciare anzitempo lo scranno di Montecitorio per una gratificazione non richiesta né voluta.
Nilde consultò solo i più stretti suoi collaboratori, ma aveva già deciso. Prima che l’indiscrezione trapelasse, come in effetti più tardi accadde, scrisse a Cossiga una frase sola, due righe appena, per stoppare la nomina: “Qui sono stata chiamata dalla fiducia dei colleghi, e qui resto per rispettarne la volontà”.
Volontà espressa dall’ormai lontano 1979 con sempre rinnovata, larghissima messe di voti a scrutinio segreto.
Era, il suo, un biglietto manoscritto che fece avere per motociclista al Quirinale. Non ci fu replica. Ma, soprattutto, non ci fu “notizia”.
Particolare significativo del personaggio: la discrezione innata e la delicatezza della contingenza giunsero al punto che Nilde pregò chi sapeva di non far parola del suo rifiuto dettato non certo da orgoglio personale, ché la nomina avrebbe comunque siglato una straordinaria vita dedicata al paese.
Nessuno fiaterà per anni, sino al 19 novembre 1999, all’indomani delle dimissioni di Iotti da deputata, quindi due settimane prima della sua scomparsa.
Una storia clamorosa e curiosa tutta interna al PCI e alla sua propaganda.
La Iotti fu anche una avversaria del fumetto, all’interno del globale rifiuto del PCI dei primi anni ’50, sotto influsso dello stalinismo e del realismo socialista, nei confronti di una forma d’arte ritenuta capitalistica e quindi deteriore.
Erano in giorni in cui il mondo cattolico aveva un atteggiamento ambivalente nei confronti del fumetto: il fumetto era deteriore se nelle mani sbagliate, ma nelle mani giuste (sostanzialmente, quelle della chiesa, con una tolleranza per il laico “Corrierino” e la Disney) diventava uno strumento formidabile di propaganda nelle giovani generazioni, e quindi encomiabile. La battaglia censoria era quindi contro ogni elemento erotico, anche blandissimo, fantastico (come i supereroi, o temi magici) e, in parte, violento (ma più a parole, perché un certo grado di azione era invece tollerato).
Nel mondo comunista italiano si era aperto un dibattito.
Il primo intervento era stato quello di Lombardo Radice, nel 1946, che denunciava come perniciosa la penetrazione del fumetto americano; ma poi Elio Vittorini su “Il Politecnico” (1945-1947) aveva pubblicato comics americani, in un primo, precocissimo tentativo di affrontare in modo critico lo studio del nuovo medium. Togliatti era a questo punto però intervenuto in una arcinota polemica a stroncare le velleità di autonomia di Vittorini, accusato di “esaltare le avanguardie e l’arte decadente, alla continua ricerca del nuovo”, con la nota replica vittoriniana: “Il compito dell’intellettuale non è quello di suonare il piffero per la rivoluzione dando una veste poetica alla politica, ma quello di raccogliere tutti gli stimoli culturali che la società offre, per rinnovarla dal profondo”.
Se quello di Vittorini era l’impostazione intellettuale, Gianni Rodari, invece, aveva dato vita assieme a Marisa Musu a un giornale per giovani di area comunista, “Il pioniere dei ragazzi” (1947), poi solo “Il pioniere” (1950).
Quando nel 1951 alcuni deputati DC avanzano una proposta di censura sui fumetti, la Iotti esprime, per il PCI, una posizione di ostilità, sia nei suoi interventi in aula, sia su “Rinascita”, pur opponendosi alla censura invocata dai democristiani (che diverrebbe, nelle loro mani, pericolosa anche per i prodotti comunisti per ragazzi).
“Io vedo nel fumetto qualche cosa che può essere paragonato – con tutto il rispetto per delle forme d’arte superiore – a quello che è la pittura astratta o la poesia ermetica: espressioni di una società decadente.” (intervento parlamentare per la censura dei fumetti, 1951, citato in Bindi, Raffaelli, “Cosa è il fumetto”).
Interessante nel discorso in aula la ripresa di temi già propri di Togliatti: la società borghese è decadente, e ciò si esprime con forme deteriori, cervellotiche come una pittura astratta o una poesia ermetica (che oggi, naturalmente, vengono valutate in modo nettamente positivo, in modo concorde da parte della critica e delle posizioni culturali ufficiali).
Il parallelo tra il fumetto e queste due forme potrebbe far pensare che si parli di un segno e di un testo ugualmente criptici, cosa che non è. Certo, il fumetto di allora è invece orientato alla massima chiarezza comunicativa: ma quello che lo accomuna è, nel discorso della Iotti, il divergere dal “realismo” in quella che diviene una forma di “evasione dal reale”: “alta” quella di ermetismo e cubismo (definiti infatti “arte superiore”, benché decadente), “bassa” quella del fumetto.
La Iotti critica poi la violenza del fumetto americano, ma non si limita a questo e lo ritiene intrinsecamente diseducativo, anche perché nato nella sua forma moderna sotto Hearst, magnate capitalista per eccellenza, con Yellow Kid (1895, effettivo punto di svolta del “fumetto industriale”) e quindi espressione intrinseca di quel modello sociale.
“il fumetto afferra la mente attraverso poche immagini e sostituisce una serie violenta di queste immagini alla ricerca dei particolari, di una logica e di un processo discorsivo. Le poche parole illustrative sono una molla, essa pure primitiva, che spinge da una immagine all’altra una mente che non lavora, non riflette, si impigrisce e arrugginisce mentre, d’altra parte, le vengono fatte passare davanti, come strumento d’avventura, le più portentose conquiste della tecnica. La osservazione dei fumetti è quindi cosa profondamente diversa dalla lettura. Non sostituisce la lettura, la sopprime”
È questo l’aspetto cruciale perché invece rifiuta la correlazione causa-effetto tra fumetto e violenza, sostenuto invece dai clericali per la “cattiva stampa” (anche perché, per un comunista, sono ben altre le cause del degrado, mentre per il clero di allora la società capitalistica funziona abbastanza bene).
«decadenza, corruzione, delinquenza dei giovani e dilagare del fumetto sono collegati, ma non come l’effetto e la causa, bensì come manifestazioni diverse di una realtà unica»
Nel suo intervento, la Iotti fa eccezione “di ufficio” per “Il Pioniere” ma anche, con una certa onestà intellettuale, per “Il Vittorioso”.
Su un successivo articolo su “Rinascita” (cfr. “Amore e politica nella vita di Nilde Iotti”, di Chiara Raganelli 2017) la Iotti aggiungerà anche una critica all’idea che il fumetto abbia una continuità con la pittura sequenziale: “I fumetti non sono una storia dipinta: sono piuttosto una lingua scritta per immagini”, con riferimento alle stringenti convenzioni grafiche del fumetto di allora (in particolare, Iotti critica la rappresentazione stereotipa del femminile, abbastanza a ragione in molti fumetti di allora, benché ovviamente non sia intrinseco al medium).
Rodari polemizzerà con le posizioni espresse dalla Iotti su Rinascita, affini ai suoi interventi in parlamento: sostanzialmente concorda per quanto riguarda il fumetto americano, ma ipotizza che, a differenza di quanto dice Iotti, sia possibile un fumetto “progressista”.
Molto interessante che sul Pioniere del 1951 Rodari faccia avviare un adattamento a fumetti del “Candido” di Voltaire. Un modo per stabilire una continuità illuminismo – comunismo, attaccare i nemici di clero e classe padronale con un modello autorevole e forse, anche, contendere al “Candido” di Guareschi – potentissimo rivale dei comunisti in quegli anni – l’eredità volterriana.
Nel 1952 Togliatti interverrà a dire come segretario una parola decisiva sulla questione, confermando in sostanza le posizioni già espresse da Iotti ma con qualche concessione alle posizioni di Rodari.
La distinzione tra forma e strumento o genere o mezzo, non ci pare che regga, ed è da respingere l’affermazione che ci troviamo di fronte (anche in questo caso!) a una specie di nuova lingua. […] Ammesso il carattere antieducativo dei fumetti, dunque, si propone che vengano tradotte ed espresse in fumetti storie educative. Così fanno certi giornaletti clericali, dove tra poco stamperanno in fumetti la storia sacra; […] Per conto nostro, non metteremo in fumetti la storia del nostro partito o della rivoluzione. Il fumetto a contenuto educativo, poi, è una cosa […] scipita, che non attira (Togliatti 1952)
Togliatti ammette invece che si possa cercare di far nascere “una narrazione figurata da contrapporre al fumetto, con commenti chiari che invitino alla lettura e conservino una dignità letteraria” e cita i casi delle immagini d’Epinal (che affiancano immagini e testi, senza l’uso del balloon, del “fumetto” appunto, e che hanno una matrice europea, nella fattispecie francese) e le stampe popolari cinesi (in Cina, negli stessi anni, sorgeva una tradizione ampia dei “fumetti di Mao”, poi raccolti e indagati in Italia nel 1971 in un volume da Eco, che andavano trattati con rispetto).
Da un lato, volente o nolente, Togliatti è qui in continuità con le posizioni espresse dal congresso di pedagogisti fascisti del 1938, che similmente puntava ad andare verso un fumetto più ricco di didascalie, come forma “intermedia” verso il romanzo illustrato e poi il romanzo tout court. Ma, in generale, e in misure diversi, tutti i pedagogisti sono favorevoli a un “arricchimento” del fumetto che implica spesso un rafforzamento delle parti testuali a scapito della pura immagine e della pura azione.
Da un altro lato, ironizzando (e citando una nota vignetta di Guareschi che non ho ritrovato sullo sciovinismo sovietico: “Chi ha inventato la radio? Stalin”), potremmo dire che Iotti e Togliatti “inventano il graphic novel”: un nuovo modo per chiamare i fumetti e continuare a usarli, cercando al tempo stesso di distinguersi da essi.
In questo modo, i fumetti continuano a essere tollerati sul “Pioniere” nelle annate seguenti, a patto che si smetta il dibattito su una loro potenziale validità artistica, cui Rodari, forse a malincuore, rinuncia (ci dovremo tornare). Essi sono tolti dalla prima pagina, e affiancati alle classiche storielle in rima – per i più piccoli – o con corpose didascalie e senza balloon.
Del resto l’importanza del fumetto era oggettivamente troppo grande per abbandonare del tutto il campo alla stampa laica (Bonelli, i personaggi Disney di Mondadori, il Corrierino, e altri) e a quella cattolica (Vittorioso e Giornalino).
Viene da chiedersi se l’antipatia di Iotti e Togliatti per il fumetto sia stata influenzata anche dalla mole consistente di vignettistica – spesso di tipo fumettistico, nel segno e nell’uso del balloon – utilizzata contro di loro in chiave personalistica: la loro relazione “peccaminosa” perché extraconiugale (invisa a un pubblico molto più ampio, allora, che non quello strettamente “di sacrestia”) divenne il fulcro di una campagna che si intuisce martellante.
Tuttavia non mancano ulteriori puntualizzazioni nel dibattito. Teresa Noce che, su “Il lavoro”, difende il desiderio di evasione delle compagne che leggono i fotoromanzi (disegnati o, ancor più, con fotografie: meno costose e più vicine al sogno cinematografico). Ammette ovviamente le ingenuità insite in quel sogno: ma criticarlo e basta, o illudersi di proibirlo, non risolve il problema (altre dirigenti femminili del partito invece concordano, ovviamente, con la linea del “Migliore”). Anche Marisa Musu, che collaborava col Pioniere, assume posizioni simili, di difesa soprattutto delle letture fumettistiche femminili.
Nel 1955 Togliatti deve tra l’altro ammettere amaramente che il partito non ha strumenti di propaganda efficaci per il pubblico femminile, che preferisce di gran lunga i fotoromanzi all’Unità o alle riviste femminili del partito.
Giuliana Saladino replica ribadendo la necessità di utilizzare la rivista illustrata ma anche il fotoromanzo per penetrare in questa fascia di popolazione, e proprio a partire dal 1955 il PCI cercherà di realizzare dei propri fotoromanzi, dove il tema sentimentale si associ a quello sociale, come in “L’amore vince sempre”, “Non è destino”, “Destino in pugno” (1959), ma anche poi le vite illustrate di Gramsci e Di Vittorio (1958), contrariamente a quanto riteneva Togliatti pochi anni prima (ma queste sono ovviamente “narrazioni illustrate”, non fumetti).
(vedi: Il fotoromanzo, Metamorfosi delle storie lacrimevoli, di Silvana Turzio · 2019; Chissà come chiameremo questi anni, Giuliana Saladino · 2013)
Alla fine, col passare del tempo, la stessa Iotti finì per modificare le sue posizioni, e – stando a Staino, il padre di Bobo, fumetto-coscienza critica del comunismo italiano – nel 1986, presentando in una delle sale della Camera il primo numero di Tango, allegato satirico dell’Unità (da cui nascerà poi “Cuore”), la Iotti fece una autoironica autocritica, ammettendo il superamento delle sue posizioni intransigenti degli anni ’50 (Storia sentimentale del P.C.I, Sergio Staino · 2021).
Non mancano infatti oggi, ovviamente, delle storie del PCI a fumetti: di recente ve ne è stata una di Mabel Morri, e una di Mezzavilla e Salvagno. Curiosamente manca però ancora una tappa, se non erro, alla riconciliazione tra fumetto e Nilde Iotti: un graphic novel biografico dedicato. Chissà che qualche fumettista, in futuro, non provveda.
Quando Nilde morì.
Non c’è mai retorica in Nilde, solo un grande rispetto per le istituzioni. Infatti, compie un passo raro in Parlamento. Nel 1999, quando sente che un tumore ai polmoni le sta togliendo le forze, rassegna le dimissioni. Esce tra gli applausi, i capelli legati in uno chignon come sempre e gli occhi lucidi.
Muore poche settimane dopo e viene sepolta proprio vicino al suo amore, Palmiro Togliatti. Ma prima di andarsene vuole scrivere alle vecchie amiche emiliane «perché purtroppo i diritti delle donne non sono del tutto acquisiti. Vanno difesi e tutelati, ancora e sempre».
Quanto pesasse la sua personalità si vide soprattutto alle solenni onoranze in occasione della sua morte, avvenuta nella notte tra il 3 e il 4 dicembre 1999 in seguito ad un intreccio di mali che provocò un collasso cardiaco.
Uscì dalla vita in punta di piedi, come c’era entrata: morì fuori Roma, in una clinica appartata al confine tra Lazio e Abruzzo.
Già sapendo di non potere più esercitare una normale vita politica e sociale si era dimessa poche settimane prima da deputata: un gesto non rarissimo (nel partito c’era il precedente di Natta) e tuttavia insolito, che aveva destato grande impressione e commozione.
Questi sentimenti crebbero a dismisura quando una folla immensa volle darle l’ultimo saluto prima durante l’esposizione della salma nel Salone della Lupa, e poi ai funerali di Stato, presente Oscar Luigi Scalfaro che prima di salire al Quirinale le era brevemente succeduto alla presidenza della Camera.
Con lui, come già con Sandro Pertini che addirittura la voleva alla presidenza della Repubblica, c’era un rapporto strettissimo, nato alla Costituente e poi sempre coltivato con sentimenti di grande considerazione e affetto.
Sulle mani di Nilde la sua compagna delle elementari Franca Ciampi intrecciò alcune roselline. Tutto finì di lì a poche ore, con la sepoltura nel famedio dove riposano le salme di quasi tutti i dirigenti del partito che fu, nell’area acattolica del cimitero romano del Verano.
Giace, la sua salma, accanto a quella di Togliatti. Si riuniva così quella straordinaria coppia che aveva dato vita – aveva detto lei una volta – a “una strana famiglia in cui non c’era un vero marito, non c’era una vera moglie, e non c’era una vera figlia, ma che pure era una famiglia unita e felicissima”.
Le Monde le dedicò una nota con questo titolo: “Se ne va la gran signora della politica italiana”. Il titolo, tra migliaia, più felice; una sintesi meritata, per la straordinaria capacità di questa donna di tenere insieme rigore e serenità, dignità ed esercizio critico della ragione, di impersonare una concezione alta della politica e la dignità stessa del Parlamento.
Le Monde giustamente lo ricordava, alle spalle e in parallelo dell’intensa e lunga vita parlamentare (cinquantatre anni) c’erano il lavoro clandestino nella Resistenza, la milizia alla base e ai vertici del Pci-Pds-Ds, l’attività all’Udi e alla commissione femminile del Pci da lei a lungo presieduta, il rapporto con Togliatti contrastato da una parte del gruppo dirigente e di cui furono segni successivi le tante cancellature del suo nome al momento della tardiva prima elezione nel Comitato centrale, e la successiva, contrastata nomina in direzione.
In realtà, e per paradossale che possa sembrare, la stella di Iotti potè cominciare a brillare di luce propria solo dopo la scomparsa di Togliatti, quando non c’era più motivo di diffidare di lei e delle inesistenti sue “fortune” dovute al legame con il segretario del partito comunista.
Alquanto stupido e stupito il richiamo del Giornale di Berlusconi “morta senza i conforti della religione”.
La passione discussa per un uomo potente Palmiro Togliatti.
È stata la prima in parlamento capace di mischiare le passioni e gli ideali
In quel primo periodo in Parlamento tutti la riconoscono anche per i suoi abiti scuri e l’immancabile colletto bianco, perché le donne devono essere serie, irreprensibili.
Ma quando Nilde acquista sicurezza, lascia emergere anche la sua femminilità e i suoi vestiti si colorano di fiori.
Saranno proprio delle rose vivaci a colpire Palmiro Togliatti. Lui è il Migliore, il leader del Pci, e ha 27 anni più di lei.
I loro sguardi s’incrociano in ascensore e da allora non si staccheranno più l’uno dall’altra. Peccato che lui sia già sposato con Rita Montagnana, una delle anime rosa del partito, e abbia anche un figlio.
L'anedottica racconta
" L’etica puritano-proletaria del partito rumoreggiava.
Mandarono in missione il segretario della Federazione di Reggio, Otello Montanari (sì quello del “chi sa parli”), a Botteghe Oscure (dove già la coppia più notoriamente clandestina d’Italia abitava in un sottotetto di tre stanze) per dirglielo, e il Capo neppure alzò lo sguardo dalle carte che stava firmando con la stilografica a inchiostro verde: “Hai finito compagno Montanari? Grazie, puoi andare”, e quello rinculò interdetto e mortificato. Come unica conseguenza, Iotti fu spostata di collegio elettorale, da Reggio a Bologna."
Definita la Costituzione, il 18 aprile 1948 arrivano le prime elezioni politiche democratiche che vedevano contrapposte da una parte la Democrazia Cristiana e dall'altra il Fronte Popolare, formato dai socialisti e dai comunisti. Chi avrà in mano il potere nel primo governo democraticamente eletto dai cittadini italiani? L'esito non lascia spazio a fraintendimenti: alla Camera la DC ottiene il 48,5% dei voti mentre al Fronte va il 31% con un netto calo rispetto alle elezioni del giugno '46.
Ma la tensione tra i due schieramenti non si esaurì e invece sfociò in un atto allora impensabile: il 14 luglio del 1948 uno studente, davanti a Montecitorio, esplose tre colpi di pisotola contro Toglliatti ferendolo gravemente. Nel filmato Nilde Jotti ricostruisce le fasi dell'attentato. Lo sciopero generale che ne seguì, promosso dalle forze di opposizione, non raggiunge lo scopo che si era prefisso: la caduta del governo e le dimissioni del ministro dell'Interno Scelba. Lo stesso Togliatti, dal suo letto d'ospedale, rassicura i compagni e cerca di pacificare gli animi, scongiurando il pericolo di un'insurrezione armata.
Dopo la morte di Togliatti Nilde Iotti non si innamorerà più, forse ha già amato troppo.
Della storia del loro amore conserva con cura un carteggio, della prima lettera ha concesso a l'Unità la pubblicazione nella celebrazione della nascita di Togliatti.
Da una rara intervista del carteggio ne sono ripresi dei passi, già perchè il carteggio è per sempre stampato nella sua memoria.
"Forse è bene che tronchiamo. I problemi che si pongono fra noi sono ormai troppi e troppo grandi", scriveva lei.
"Siamo già andati troppo avanti: anche se lo volessimo non potremmo più farlo", rispondeva lui.
Sembra il carteggio fra Anna Karenina e Vronskij. Ed era il 1947 quando Nilde e Palmiro si scrivevano quelle parole.
Era passato un anno da quando il Migliore, incontrando nei corridoi di Montecitorio quella deputata di Reggio di ventisette anni più giovane, quella ragazzona comunista dallo sguardo fiero, e le aveva azzardato una leggera e galeotta carezza sul capo.
Inizio dello scandalo, del segreto più noto e meno detto della morale comunista, già perché Togliatti era sposato, rivoluzionariamente sposato con una compagna, Rita Montagnana, con cui aveva condiviso persecuzioni esili clandestinità e battaglie internazionaliste, con cui aveva fatto un figlio.
Documenti che rivelano l’esistenza di un amore puro e sincero nei confronti del miglior dirigente comunista, che per lei era il migliore degli uomini, anche se apparentemente vietato. Un sentimento che ha dovuto combattere non solo contro gli altri, ma anche con tutti i dubbi di coscienza e i rimorsi della stessa Leonilde.
Le lettere custodite per decenni dalla figlia Marisa, divennero leggibili a tutti, pubblicate postume in un libro, commentate in diversi altri. Iotti nell'intervista raccontò il suo Togliatti (sempre chiamato per cognome). Il Migliore che dice: non ti lascio andare via, neanche se me lo chiede il partito.
Il capo del comunismo italiano che argomenta "con lunghe, profonde osservazioni" la superiorità dell’amore sulle maldicenze. Che si inoltra perigliosamente sul terreno del linguaggio lirico, "Chi sei tu? Chi ti apre il cammino ai segreti della mia vita?". Che traccia a biro blu (l’inchiostro verde era la sigla dell’altro Togliatti, il politico) biglietti brevissimi sulla carta intestata dell’Assemblea Costituente, o lunghe missive dai viaggi all’estero che esordiscono “Nina mia cara”, vibranti di sentimento, mescolanze di ingenue metafore da innamorati, “sei come una striscia di sole in una stanza buia” e di eleganti citazioni latine, “nec tecum vivere possum nec sine te”.
Il destino di combattente è già scritto nel nome, Leonilde.
Papà Egidio e mamma Alberta la chiamano così perché hanno perso 3 figli in fasce e anche lei sembra così gracile che nemmeno i parenti scommettono sul fatto che possa arrivare al battesimo.
Ma la piccola Leonilde, proprio come una leonessa, ce la fa, eccome se ce la fa. E quella è solo la prima di una lunghissima lista di battaglie che si prepara ad affrontare nella vita.
Sul Paese spirano i venti del fascismo, papà è ferroviere, socialista e sindacalista e le ultime 2 caratteristiche gli fanno perdere il lavoro.
Mamma, invece, fa la casalinga e ama così tanto Alessandro Manzoni da leggerlo ogni sera alla figlia.
Si fatica a portare la cena in tavola e la situazione peggiora con la morte di Egidio, quando Nilde ha solo 14 anni. Ma lei non si abbatte e studia, perché proprio il padre le ha insegnato che “cultura fa rima con potere”.
All’universita, la Cattolica di Milano, ci arriva con una borsa di studio. Fa su e giù tra Emilia e Lombardia e nelle interminabili ore di treno, stretta nel largo cappotto del padre, prepara gli esami e diventa maestra. Ma non insegna per molto.
La guerra sconvolge l’Italia e Nilde è staffetta partigiana: quelle sue mani così belle ed eleganti che vedremo tante volte, anni dopo, impugnare il campanello per riportare l’ordine alla Camera dei deputati, confezionano guanti per gli uomini della Resistenza. Le gambe, invece, macinano chilometri per portare munizioni, volantini e medicine. È in questi anni che nasce la passione per la politica: diventa la prima presidente dell’Unione donne italiane e poi consigliera comunale per i rossi nella sua città.
Nilde Iotti e Palmiro Togliatti
Amarsi alla luce del sole nell’Italia del ’46 sarebbe uno scandalo così i due si nascondono proprio là, nella soffitta di Botteghe Oscure, la sede del Pci. Vivono in clandestinità. E fino all’estremo, tanto che lui la costringe ad abortire il bimbo che ha in grembo. Sembra una storia scritta in un passato antico eppure su questa vicenda è calato un silenzio così pesante che ancora oggi chi le era vicino evita di parlarne.
La vita, però, squarcia il velo. Quando un attivista cerca di uccidere Togliatti, è proprio Nilde a proteggerlo, facendogli scudo con il suo corpo.
E urlando al mondo il loro amore, che viene quasi accettato e suggellato con l’adozione di una bimba, Marisa.
Certo, lei rimane sempre la compagna di Togliatti, la “protetta”, come se la sua carriera fosse dovuta a lui. Fino alla morte del leader nel ’64.
Ai funerali accompagna il feretro composta, con il viso scavato dal dolore e quei segni che le rimarranno per sempre sul volto.
Vacanze in Montagna
Marisa, Nilde e Palmiro in vacanza a Cogne
I due leader della sinistra Nenni e Togliatti andarono entrambi a villeggiare a Cogne nel 1963 per «ragioni del tutto casuali, senza alcuna preventiva intenzione».
Abitavano in una villettina lungo la strada verso Valnontey, regalata alla storia come villa Togliatti, proprio di fianco alla residenza estiva dei Costa di Genova e alla villa Giacosa, di fronte l'immensa pianura e tutt'intorno le montagne del Gran Paradiso.
Se il segretario del Pci «si immedesimava nel ruolo del villeggiante alpino, metteva i calzettoni, gli scarponi, i calzoni alla zuava, un bel maglione e il cappello», Nenni si godeva le frescure montane come un periodo di assoluto riposo.
Il segretario socialista «andava a leggere in riva ai torrenti e alla fine ci cadde dentro; si era addormentato».
Togliatti voleva manifestare la sua passione per la montagna al punto che, un giorno, scrisse una lettera alla rubrica «Specchio dei Tempi» dell'anticomunista Stampa, denunciando che la direzione del Parco del Gran Paradiso aveva distrutto un bellissimo rifugio all'Alpe del Money.
La polemica andò avanti per qualche tempo, fino a che la direzione del Parco dimostrò in maniera perentoria che quel rifugio non era mai stato costruito, e che la foto che il pignolissimo Togliatti aveva trovato, e inviato al giornale come prova, non era altro che quella del progetto mai realizzato.
Chi è Marisa? Molti ricorderanno, ma non tutti sanno la sua storia.
Il 9 gennaio del 1950, Marisa Malagoli era una bimba di sei anni, la più piccola di una laboriosa famiglia di mezzadri. Tutti in famiglia, anche i nove figli, lavoravano la terra a mezzadrìa, tranne Arturo, ventuno anni, il più politicizzato della famiglia, operaio alle Fonderie Riunite dove le serrate e gli scioperi si susseguivano da due anni.
Lì, quel 9 gennaio, era in corso l’ennesimo sciopero provocato dalla resistenza del padrone Orsi a firmare un accordo salariale. La polizia di Scelba caricò, poi sparò, com’era già accaduto a Melissa, a Montescaglioso, a Mussomeli… In pochi istanti sul piazzale rimasero sei morti e diecine di feriti, forse centinaia perché la più parte temette di andare in ospedale. A Modena accorse una delegazione del Pci e del Psi guidata da Palmiro Togliatti e Pietro Nenni. Togliatti decise di aiutare personalmente una delle famiglie che piangevano i loro morti. Il tramite fu la ormai scomparsa Gina Borellini, medaglia d’oro della Resistenza. Togliatti vergò un biglietto per Nilde: “Che ne diresti di un’adozione?”. “Sì, ma che sia una bambina”, rispose Iotti. La scelta cadde su Marisa che, non con l’adozione ma con il ricorso all’affiliazione, acquisì più di dieci anni dopo anche il cognome di Togliatti. Marisa Malagoli Togliatti che è stata anni dopo ordinario di psicodinamica dello sviluppo e delle relazioni familiari alla Sapienza di Roma.
Palmiro Togliatti (1893 - 1964), conosciuto come "il migliore", l'uomo politico italiano che trasformò il Partito Comunista Italiano in una delle più importanti organizzazioni di massa del dopoguerra. In questo filmato di Rai Storia, tratto dal programma "Il Tempo e la Storia", i momenti salienti della sua vita e della sua azione politica a partire dagli anni Venti fino alla sua morte, avvenuta a Jalta il 21 agosto 1964.
Tre date importanti per raccontare i passaggi più significativi della vita di Togliatti: 10 febbraio 1926, a causa della persecuzione fascista è costretto all'esilio in Unione Sovietica; 14 luglio 1948, davanti a Montecitorio uno studente, Antonio Pallante, gli spara ferendolo; 21 agosto 1964, a Jalta, in Crimea, Togliatti si spegne a causa di un malore improvviso. Ospite della trasmissione, il professor Agostino Giovagnoli, storico dell'età contemporanea, spiega il ruolo che ebbe Palmiro Togliatti non solo nella politica ma anche nella cultura e nella società italiana del dopoguerra.
Togliatti nasce a Genova il 26 marzo 1893. Studia Giurisprudenza a Torino e qui conosce Antonio Gramsci con cui nel 1919 fonda la rivista "L'Ordine Nuovo" e insieme partecipano alle occupazioni delle fabbriche e ai consigli operai mentre la nascita del fascismo lascia già intravedere la fine dei primi esperimenti rivoluzionari in Italia. Nel 1921 Togliatti e Gramsci sono in prima fila nella fondazione del Partito Comunista Italiano. Con l'arrivo al governo di Mussolini per i militanti comunisti i tempi si fanno sempre più difficili: si moltiplicano le violenze squadriste e gli arresti. Nel 1926 Togliatti si trasferisce a Mosca per sfuggire alla caccia dei fascisti.
Dopo l'arresto di Gramsci, Togliatti diventa il leader del partito che nel frattempo ha stabilito la sua sede a Parigi. Fedele alla linea politica di Stalin, a differenza di Gramsci e di altri dirigenti del PCI, Togliatti non ha tentennamenti nemmeno di fronte ai processi sommari e alle fucilazioni degli oppositori. Il Comintern lo invia in Spagna durante la Guerra Civile mentre si annuncia lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Dopo 18 anni di esilio in Unione Sovietica, nel 1944 Togliatti torna in Italia, sbarcando il 27 marzo a Napoli, appena liberata dai nazisti. Vede la miseria, la mancanza di lavoro, si rende conto della situazione critica in cui si trova in quel momento quella parte del Paese e insieme della necessità di una pacificazione per riunire la Nazione in nome della rinascita.
Con il governo Parri Togliatti entra nel vivo della vita politica del dopoguerra come Ministro della Giustizia. Il suo primo atto a favore della riconciliazione nazionale è l'approvazione il 22 giugno del 1946 di un'amnistia che riguarda principalmente i reati politici commessi dai fascisti, ad esclusione di quelli più gravi. Nel frattempo, le elezioni del 2 giugno per l'Assemblea Costituente conferiscono un'ampia maggioranza alla Democrazia Cristiana (35,2%) mentre i comunisti risultano la terza forza dopo i socialisti. Oltre al voto per la rappresentanza nell'Assemblea Costituente, il 2 giugno gli italiani avevano votato anche per il referendum Monarchia-Repubblica con l'affermazione della Repubblica.
Definita la Costituzione, il 18 aprile 1948 arrivano le prime elezioni politiche democratiche che vedevano contrapposte da una parte la Democrazia Cristiana e dall'altra il Fronte Popolare, formato dai socialisti e dai comunisti. Chi avrà in mano il potere nel primo governo democraticamente eletto dai cittadini italiani? L'esito non lascia spazio a fraintendimenti: alla Camera la DC ottiene il 48,5% dei voti mentre al Fronte va il 31% con un netto calo rispetto alle elezioni del giugno '46. Ma la tensione tra i due schieramenti non si esaurì e invece sfociò in un atto allora impensabile: il 14 luglio del 1948 uno studente, davanti a Montecitorio, esplose tre colpi di pisotola contro Toglliatti ferendolo gravemente. Nel filmato Nilde Jotti ricostruisce le fasi dell'attentato. Lo sciopero generale che ne seguì, promosso dalle forze di opposizione, non raggiunge lo scopo che si era prefisso: la caduta del governo e le dimissioni del ministro dell'Interno Scelba. Lo stesso Togliatti, dal suo letto d'ospedale, rassicura i compagni e cerca di pacificare gli animi, scongiurando il pericolo di un'insurrezione armata.
Quando nel 1953 Stalin muore, si apre in Urss la lotta per il potere da cui alla fine esce vincitore Nikita Kruscev che diventa il nuovo segretario. Le idee del nuovo leader, diverse da quelle di Stalin, creano scompiglio anche nei dirigenti del PCI, compreso Togliatti. Al XX Congresso del Pcus, che si tiene a Mosca nel febbraio del 1956, Togliatti parla di "via italiana" al comunismo, che prenda in considerazione lo sviluppo storico del Paese, la sua struttura sociale e l'orientamento di larghe masse della popolazione. La lotta deve sempre e comunque svolgersi sul terreno della democrazia e non su quello della violenza. Distenzione e coesistenza pacifica del blocco occidentale e di quello comunista dunque nelle parole di Togliatti che fanno eco a quelle pronunciate dallo stesso Kruscev in funzione anti stalinista. Inizia l'età del disgelo.
Quando Kruscev decide di mandare i carri armati in Ungheria per stroncare la rivolta democratica, Togliatti fatica a trovare una motivazione plausibile ad un atto che tutti giudicano un'intollerabile ingerenza. "Noi siamo un partito che sta dalla parte di chi lotta in difesa della propria libertà", dice nel corso di una tribuna elettorale nel 1961. Ma contemporaneamente condanna Imre Nagy, primo ministro e sostenitore dei rivoluzionari anti sovietici durante la rivoluzione ungherese, perché a suo parere si era macchiato di gravi delitti, violando la Costituzione del suo paese. Per Togliatti, ancora una volta, non si può mettere in dubbio il ruolo guida di Mosca.
Agli inizi degli anni Sessanta Togliatti torna a guardare al mondo cattolico. A Bergamo, nel 1963, pronuncia uno storico discorso intitolato "Il destino dell'uomo". L'esigenza di un fronte comune contro il consumismo e la mercificazione della vita, sono le cerniere che devono fare da ponte tra credenti e comunisti. Pochi giorni dopo il discorso di Bergamo, papa Giovanni XXIII pubblica l'enciclica "Pacem in Terris". Ma le elezioni politiche che seguono non danno i risultati che Togliatti si aspetta. Nell'agosto del 1964 il segretario del Partito Comunista riparte per l'Unione Sovietica e lì scrive il cosiddetto "Memoriale di Jalta" in cui muove diverse critiche alla dirigenza del Pcus, tra l'altro la lentezza con cui si sta lasciando alle spalle l'eredità staliniana. Il 13 agosto Togliatti viene colpito da un'emorragia cerebrale e si spegne qualche giorno dopo, il 21 agosto. Il 25 agosto si svolgono a Roma i solenni funerali cui partecipano centinaia di persone da tutto il mondo.
Mai riuscito a rispondere compiutamente alle uniche importanti domande della vita: “quanto costa?”, “quanto ci guadagno?”. Quindi “so e non so perché lo faccio …” ma lo devo fare perché sono curioso. Assecondami.