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Cosa accade nella corsa alle armi contro il virus. La nascita del "nazionalismo vaccinale".
Photo/F. Nestares P.
Il mondo ha festeggiato il nuovo anno all’insegna del vaccino, nella speranza di potersi mettere alle spalle quello appena trascorso, guarendo definitivamente dalla pandemia che l’ha colpito. Con il taglio delle scorte e i ritardi nelle consegne delle dosi di Pfizer e AstraZeneca, l’entusiasmo ha cominciato a lasciar spazio alla preoccupazione. Il punto è che non basta un farmaco a fare la cura.
Vale per l’individuo ma vale anche per la popolazione.
Per la fisiologia dell’organismo le condizioni di vita incidono sul decorso di una malattia quanto la medicina pensata per curarla. Per quella dell’intera umanità, la modalità e la velocità con cui la medicina viene distribuita e prodotta incidono quanto il suo profilo farmacologico.
L’economia politica è la farmacocinetica delle masse.
Nel caso della pandemia da Covid, più spazio e tempo di diffusione si concede al virus, più strade gli si offrono per mutare, per diventare non solo più virulento o infettivo ma anche eventualmente capace di aggirare le protezioni immunitarie suscitate dai vaccini, vanificandone l’efficacia e ricominciando il ciclo.
L’epidemiologo evoluzionista Robert Wallace ha chiamato “molteplicità di gregge”1 questa possibilità di esplorazione concessa al virus, in contrapposizione a chi riteneva che lasciargli libertà fosse la strada per raggiungere “l’immunità di gregge”.
Un illusione svanita con i brividi suscitati dall’emergere delle varianti prima inglese, poi sudafricana e ora brasiliana.
Come ha detto Philip Kraus, che coordina il gruppo di esperti sui vaccini dell’OMS, “la rapida evoluzione di queste varianti suggerisce che se è possibile che il virus evolva un fenotipo resistente ai vaccini, questo può accadere prima di quanto sperassimo”2. In questa corsa alle armi contro il virus, il sistema immunitario della nostra società soffre di pericolose patologie.
Vaccini e nazioni
Chi oggi volesse vaccinarsi deve farlo attraverso il sistema sanitario del proprio paese. Agli stati infatti è affidata la delicata campagna di vaccinazione. Anche se provano a saltarla, come ha riportato il New York Times, pure ai cittadini più abbienti tocca stare in fila. Si è così scongiurato il far west che avrebbe visto i prezzi gonfiarsi e gli operatori sanitari, insieme ad altre categorie esposte e vulnerabili, farsi scavalcare da una manciata di inutili ricchi. Ma la legge della giungla evitata all’interno si è ripresentata a livello internazionale. Gli stati non guardano in faccia al reddito dei propri cittadini, ma costringono gli altri stati a farlo. Cacciato dalla porta, il classismo vaccinale è rientrato dalla finestra in una forma mutata che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito “nazionalismo vaccinale”: la rincorsa a produrre e accaparrarsi per primi le scorte, in un tutti contro tutti che premia i Paesi con più risorse.
La stessa OMS ha provato a porvi rimedio da subito.
Già verso maggio, quando si riempivano le prime pagine dei giornali con notizie sugli accordi bilaterali tra governi come quello statunitense o tedesco e aziende farmaceutiche come la Pfizer, sollevava le conseguenti problematiche sanitarie.
Un’immunizzazione a macchia di leopardo non risolve una pandemia ed è anzi è condannata a trascinarla.
Con lo slogan “nessuno è al sicuro finché tutti non sono al sicuro” ha allora lanciato, insieme alla Global Vaccine Alliance (partenariato pubblico-privato di cui, tra gli altri, è parte l’OMS stessa, insieme alla Fondazione Bill e Melinda Gates) e alla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (un altro partenariato simile, fondato al World Economic Forum di Davos nel 2015, in cui ancora una volta sono presenti, tra gli altri, sia l’OMS che la fondazione Gates), un programma denominato COVAX.
Si tratta di uno dei quattro pilastri, quello vaccinale appunto, della Access to COVID-19 Tools Accelerator (ACT-Accelerator), piattaforma nata a fine aprile da un’iniziativa del G20 e dall’OMS, “per accelerare lo sviluppo, la produzione e l’accesso equo a livello globale delle tecnologie sanitarie essenziali contro il COVID-19”, e guidata dall’OMS stessa, in compagnia di partner pubblici e privati (tra cui, ancora una volta, l’onnipresente fondazione Gates).
Attraverso il COVAX i paesi più ricchi (cosiddetti “self-financing”) possono prenotare le dosi di vaccino che desiderano pagando in anticipo una parte e dando il resto una volta giunto il prodotto.
Il vantaggio per loro consisterebbe nella possibilità di mettere in comune le risorse accelerando lo sviluppo dei vaccini e riducendo il rischio di scommettere su quello sbagliato, visto che solo uno su dieci si rivela in genere efficace.
I paesi poveri non devono contribuire se non eventualmente una volta giunto il vaccino acquistandone a prezzo molto calmierato le dosi.
A coprire i loro costi sarebbero le donazioni pubbliche e private e addirittura l’emissione di appositi bond (gli IFFIm, coperti dalle donazioni di stati che si impegnano in pagamenti pluriennali). Per questi paesi rappresenterebbe una delle poche possibilità concrete di ottenere un vaccino in tempi ragionevoli3.
Le dosi vengono infatti ripartite tra gli stati membri secondo criteri omogenei: i primi a esserne destinatari sarebbero gli operatori sanitari e sociali in prima linea e poi verrebbero gli over-65 e le fasce vulnerabili, dopodiché verrebbe vaccinata il resto della popolazione fino a raggiungere il 20% di copertura4.
Solo superata questa soglia i paesi “self-financing” che avessero prenotato ulteriori scorte potranno riceverle, fino ad arrivare a una quota del 50% della propria popolazione.
Il primo obiettivo del progetto COVAX è stato quello di raccogliere 2 miliardi di dollari entro fine 2020 così da assicurare i primi accordi con le case farmaceutiche.
L’obiettivo è stato raggiunto e questo dovrebbe garantire le prime forniture minime entro la primavera di quest’anno. Ma per riuscire a raggiungere il 20% della popolazione dei paesi membri entro la fine 2021 – in ogni caso un tempo lungo e una copertura assolutamente insoddisfacente – sono richiesti altri 7 miliardi di dollari.
A rischiare di compromettere l’impresa sono i numerosi accordi bilaterali milionari con le principali case farmaceutiche portati avanti dai paesi ad alto reddito. Mentre gran parte del mondo è totalmente tagliata fuori, molti stati tra Europa e Nord America hanno già acquistato scorte sufficienti a coprire più volte la propria popolazione.
Compresi i paesi che partecipano al COVAX, i cui membri “self-financing” possono portare avanti accordi fuori dalla piattaforma senza che questo gli impedisca di ricevere le dosi che hanno prenotato attraverso di essa.
Lo stesso, sia detto per inciso, non accade invece per i Paesi definiti “funded countries”, quelli che ricevono le donazioni, che in caso facciano accordi che coprano il 20% o più della popolazione potranno ricevere le dosi COVAX solo quando tutti gli altri paesi membri avranno raggiunto la stessa percentuale5 – i rapporti di forza tra stati si riflettono anche nelle istituzioni pensate per mitigarli.
La difficile situazione in cui versa il progetto è stata riassunta dalle dure parole di Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore dell’OMS, nelle considerazioni di apertura della 148° sessione dell’Esecutivo dell’organizzazione del 18 gennaio, che vale la pena riportare:
“Più di 39 milioni di dosi di vaccino sono state somministrate in almeno 49 paesi ad alto reddito. Solo 25 dosi sono state somministrate in un paese a basso reddito. Non 25 milioni; non 25 mila; solo 25. Devo essere sincero: il mondo è sull’orlo di un fallimento morale catastrofico – e il prezzo di questo fallimento sarà pagato dalle vite e dalle condizioni di vita dei paesi più poveri. Anche se si riempiono la bocca di equo accesso, alcuni paesi e aziende continuano a dare priorità agli accordi bilaterali, aggirando il COVAX, facendo salire i prezzi e cercando di saltare in prima fila. […] La situazione è aggravata dal fatto che la maggior parte dei produttori ha dato priorità all’approvazione legale dei paesi ricchi, dove i profitti sono più alti, piuttosto che presentare dossier completi all’OMS. Questo potrebbe ritardare le consegne di COVAX e creare esattamente lo scenario che COVAX era stato chiamato a evitare, con scorte, mercati sregolati, risposte scoordinate e continui sconvolgimenti sociali ed economici”.
Investimenti pubblici, brevetti privati
Fino ad adesso però ci siamo limitati ad analizzare il lato della distribuzione, il modo in cui viene ripartita una torta già data. Ma è la produzione a determinare la grandezza di ciò che poi va diviso.
Nel settore farmaceutico a farla da padrone sono le multinazionali di base europea e americana, nonostante, come vedremo, nei mercati emergenti si stanno affacciando aziende capaci di insinuare in parte il loro monopolio.
Un monopolio anche intellettuale, che mantengono a forza di brevetti e complessi sistemi di proprietà. Che però si rivelano un pericoloso ostacolo alla collaborazione scientifica in momenti di emergenza come questo. Se infatti la pluralità di attori coinvolti e la molteplicità di strategie di sviluppo aumentano le probabilità di produrre i vaccini giusti, al contempo “quelli che lavorano con nuove tecnologie sono disincentivati a condividere dettagli che potrebbero rendere più facile per gli altri risalire alle loro tecniche brevettate”6.
Per sviluppare incentivi alla condivisione di questo crescente patrimonio di conoscenze, già a marzo Emiliano Brancaccio e Ugo Paganopubblicavano sull’importante rivista The Scientist un appello che invocava un ampio intervento pubblico al servizio di alcune misure urgenti per facilitare la condivisione internazionale dei brevetti e premiare i ricercatori che condividessero le proprie scoperte.
Poco dopo anche economisti blasonati e alla moda sostenevano l’importanza di un massiccio intervento pubblico in grado di superare quello che Mariana Mazzucato chiamava il modello di “scienza proprietaria” che “promuove la segretezza a fini competitivi, dà priorità alle regolamentazioni dei paesi ricchi rispetto a un’amplia disponibilità e all’impatto sulla salute pubblica globale ed erige barriere alla diffusione tecnologica”7. Un modello grazie a cui, come scriveva il premio Nobel Joseph Stiglitz,
“le aziende farmaceutiche commerciali hanno privatizzato e bloccato per decenni i beni comuni intellettuali estendendo il controllo sui farmaci salvavita attraverso brevetti ingiustificati, frivoli o secondari, e facendo pressioni contro l’approvazione e la produzione di farmaci generici. Con l’arrivo di COVID-19, è ora drammaticamente chiaro che tale monopolizzazione avviene a costo di vite umane”8.
Si dimenticava di specificare “vite umane occidentali”, visto che al resto del proletariato mondiale questa situazione è drammaticamente chiara da tempo.
La cosa paradossale è che senza enormi investimenti pubblici in ricerca di base, i vaccini ce li sogneremmo.
Come scrive Il Sole 24 Ore, “in generale il business dei vaccini, questa forse la verità più scomoda, è stato spesso considerato poco redditizio per le grandi case farmaceutiche, almeno non quanto farmaci brevettati per trattare e curare malattie anziché prevenirle e dove di conseguenza dirigono il loro impegno” (“impegno”, cioè capitali, nello strano gergo di Confindustria). Quando il vaccino funziona, infatti, la popolazione viene immunizzata e non ce n’è più bisogno.
Senza bisogno però non c’è domanda, senza domanda non c’è mercato, senza mercato non ci sono profitti.
Se si vuole lucrare sul male bisogna stare attenti a non estirparlo. Rispetto a molti altri farmaci i vaccini si distinguono poi per i loro alti costi di sviluppo e per i rischi di fallimento, legati alla complessità della risposta immunitaria che devono suscitare.
Così “una manciata di aziende domina il mercato globale dei vaccini, vendendo essenzialmente varianti degli stessi 10-15 vaccini esistenti, con relativamente poca innovazione, nonostante l’esistenza di molte malattie infettive che sarebbero benefico affrontare con un vaccino”9. E anche questi mancherebbero se non ci fosse la ricerca portata avanti dalle istituzioni pubbliche e no-profit, di cui gli investitori privati sviluppano solo gli ultimi passaggi, che trasformano in brevetti.
Vale in generale e ancor di più nel caso del Covid: “i candidati al vaccino a mRNA di Moderna e BioNTech/Pfizer, leader nel settore, si basano su 30 anni di ricerca pubblica e privata sul potenziale dei vaccini a base di RNA e DNA.
Allo stesso modo, l’Università di Oxford (che in seguito ha collaborato con AstraZeneca), J&J, CanSino e Gamaleya hanno rapidamente riproposto per COVID-19 le loro piattaforme di vaccini adenovirus che erano state esplorate per molti anni e una varietà di malattie, tra cui più recentemente MERS-CoV, Zika ed Ebola”10.
E si tratta di investimenti pressoché a rischio zero perché gli Stati e le istituzioni internazionali (come COVAX) pagano in anticipo le dosi che acquisteranno, concordando precedentemente il prezzo minimo e massimo.
In cambio molte multinazionali hanno promesso di non trarre profitto dalle vendite fintanto che la pandemia è in corso, anche se a tutt’oggi non è affatto chiaro cosa questo significhi: per AstraZeneca ad esempio il limite è fissato fino a luglio di quest’anno e in generale i contratti soffrono di poco trasparenza, come denunciato dal Parlamento Europeo e riportato dal Financial Times.
Ad ogni modo i profitti sono solo rimandati.
Come sottolineato da due economisti liberali de Lavoce.info, “il timore, quindi, non è solo che con prezzi troppo alti i vaccini non siano accessibili a tutti, ma anche che i contribuenti paghino due volte, avendo già largamente contribuito con le loro tasse alla sua scoperta e al suo sviluppo”.
Nonostante questo nessun obbligo è stato quindi imposto perché metodi e risultati delle ricerche e dello sviluppo fossero condivisi.
Al 28 ottobre dell’anno appena trascorso si registravano “più di 600 casi di contenzioso su brevetti legati al Covid-19, di cui quasi la metà negli Stati Uniti e un terzo in India e Brasile”11.
Un tentativo di mitigare questa situazione è stato portato avanti dall’OMS il 29 maggio su proposta del presidente progressista costaricano Carlos Alvarado, dando vita al “COVID-19 Technology Access Pool” (C-TAP), una piattaforma ad adesione volontaria per la condivisione delle ricerche e della tecnologia utili a combattere la pandemia per attori pubblici e privati, che prevedeva tra l’altro un meccanismo per mettere in comune brevetti per un tempo limitato. Neanche questo è bastato.
Al momento nessuna delle grandi aziende che stanno sviluppando i vaccini risultano aver aderito. Anzi, quando il progetto è stato lanciato il presidente della Pfizer lo ha definito inutile e addirittura “pericoloso”.
Per questo lui e gli altri amministratori delegati delle principali multinazionali farmaceutiche si sono meritati il quinto posto nella deprecabile classifica “Martin Shkreli” (odiatissimo truffatore finanziario del settore sanitario) dedicata “ai peggiori esempi di speculazione e di malfunzionamento del sistema sanitario” redatta dal Lown Institute, un think-tank che si occupa di diritti alla salute12.
Uno scontro più serio è avvenuto all’Organizzazione Mondiale del Commercio (il WTO) dove il 2 ottobre Sud Africa e India hanno portato una mozione per una deroga temporanea ai brevetti che coprono le tecnologie mediche necessarie al trattamento e alla cura contro il Covid.
A opporsi gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Canada, l’Australia, il Giappone, la Svizzera, la Norvegia, l’UE e il Brasile. La maggior parte di essi ospita aziende farmaceutiche che beneficiano della tutela dei diritti di proprietà intellettuale del WTO.
Tutti, con l’eccezione del Brasile, hanno accordi bilaterali con aziende produttrici di vaccini13. Decine di altri membri del WTO, per lo più paesi a basso reddito, l’hanno invece sostenuta, compresa la Cina, nonostante già allora avesse diversi vaccini in fase avanzata di sperimentazione. La mozione è stata quindi rinviata e la discussione è continuata attraverso canali informali.
L’ultimo incontro ufficiale a porte chiuse del 19 gennaio si è concluso in un ulteriore nulla di fatto, nonostante i paesi promotori abbiano continuato a insistere che il modo in cui “i principali sviluppatori di vaccini stanno gestendo la loro IP e le loro tecnologie è una delle ragioni chiave della insufficiente fornitura di vaccini”, come ricostruito da Reuters. Secondo Shailly Gupta, di Medici senza frontiere, i paesi che si oppongono “sembrano cercare deliberatamente di perdere tempo”.
Il virus, però, il tempo non lo perde. Così mentre veniva sprecato tempo prezioso, è tornata loro indietro un po’ dell’amara medicina. Di fronte ai ritardi di AstraZeneca, l’azienda di base nell’Inghilterra dell’ormai compiuta Brexit, nel resto dei paesi UE si è aperta la discussione.
“È urgente mobilitare tutte le riserve di vaccini. Anche se questo significa costringere BioNTech e Pfizer a dare in licenza il loro farmaco”. Così scriveva il redattore economico dello Zeit, in un articolo del 26 gennaio. “Per esempio, alla Bayer”, aggiungeva, e l’esempio ovviamente non è casuale. Però se ancora è un sussurro, l’ipotesi di una vera e propria sospensione dei brevetti comincia a farsi strada.
E potrebbe diventare una voce grossa o addirittura la linea ufficiale se le cose continuano ad andare così. Come potrebbero diventarlo più probabilmente le ritorsioni, con le multinazionali che hanno base nella UE costrette dalla Commissione a privilegiare i paesi dell’Unione a spese del Regno Unito e di altri.
“À la guerre comme à la guerre”, ha detto ai microfoni di Radio 24, Stefano Barisoni, direttore di Focus Economia, nella trasmissione del 27.
La corsa all’accaparramento paventata dall’OMS rischia di colpire così gli stessi paesi che credevano di averla già vinta.
Il vaccino finanziario
Come ha scritto l’economista greco Costas Lapavitsas, “le linee generali dello sforzo vaccinale in Occidente sono quindi chiare: i vaccini sono stati sviluppati attraverso la concorrenza tra le grandi imprese farmaceutiche, attingendo ai laboratori di ricerca biomedica e alle università, sulla base di consistenti finanziamenti pubblici.”14
Una socializzazione dei costi e privatizzazione dei profitti che rappresenta il rovescio della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite a cui ci hanno abituato in tempi di crisi i salvataggi di banche e istituti finanziari in nome dello slogan “too big to fail” (troppo grandi per fallire).
Riflette quello stesso rapporto simbiotico che lega gli stati all’apice della piramide imperialista agli andamenti dei mercati azionari, dal cui destino dipendono le sorti dei bilanci pubblici (che pur da questi si fanno strozzare), che al contempo, insieme a sempre più spregiudicate manovre monetarie, garantiscono la stabilità dei primi.
Anni di iniezioni di liquidità hanno permesso una crescita degli indici di borsa sempre più slegata dagli indicatori dell’economia “reale”.
Dopo un crollo iniziale, i listini si sono ripresi per poi continuare a salire durante tutto quest’anno di pandemia.
Il terribile 2020 non è stato così terribile per gli azionisti. I profitti delle multinazionali del vaccino, che hanno annunciato i successi dei propri trial clinici ai mercati finanziari prima ancora che alle autorità sanitarie, facendo impennare le proprie quotazioni, partecipano a questo grande momento di euforia finanziaria.
Un’euforia che al contempo rischia di farla andare fuori controllo. Tra tutti gli indici in questi mesi è stato proprio il NASDAQ, quello dei titoli tecnologici (dove sono quotate Moderna e Novavax, due dei principali produttori di vaccini) a registrare i valori più impressionanti. L’impennata dell’ultimo periodo, che l’ha portato a record mai visti, sta moltiplicando le voci di una “tech bubble”, una bolla speculativa sui titoli high-tech15.
Con un livello di indebitamento pubblico e privato alle stelle e politiche monetarie che ormai hanno utilizzato praticamente tutti gli strumenti a disposizione, l’esplosione di un’ulteriore bolla (che potrebbe avvenire anche su altri mercati, come quello immobiliare) sarebbe catastrofica.
Per questo da mesi si parla di una “grande rotazione” (a cui Il Sole 24 Ore ha dedicato un’apposita sezione del sito), un riposizionamento dai titoli ad alta crescita ma potenzialmente speculativi (come Tesla, il cui prezzo delle azioni vale centinaia di volte i suoi utili) ai titoli più stabili, dal valore sicuro, più ancorati alla cosiddetta economia reale. Ma perché questo accada c’è bisogno che l’economia reale riparta. C’è bisogno che la gente torni nei posti di lavoro e nei luoghi del consumo. Altrimenti non bastano neanche le migliaia di miliardi di dollari di stimoli del governo USA e i centinaia di miliardi di euro delle misure UE. È questo allora quello che il mondo economico e finanziario si aspetta davvero dal vaccino16. Ed è su questo tipo di aspettative che l’OMS spera di far leva quando insiste sui danni non solo sanitari, ma anche economici di una pandemia che si protraesse a causa delle logiche ristrette che limitano la cooperazione medica, scientifica ed economica internazionale.
Ma come hanno dimostrato le misure di contenimento della pandemia portate avanti finora in Europa e Nordamerica, alle classi dirigenti dei paesi più ricchi non serve estirpare il morbo alla radice, cosa che, come hanno dimostrato la Cina, il Vietnam, la Nuova Zelanda, sarebbe possibile anche senza un vaccino.
Serve rallentarlo quel che basta a non far collassare il sistema sanitario e permettere alla gente di andare a lavorare nei luoghi chiave della produzione.
Chiaramente in mezzo c’è un mondo di sfumature e di interessi in conflitto.
In Italia si va dai falchi come il presidente di Confindustria Bonomi, ai tentativi del Governo Conte di evitare il collasso sanitario e un massacro sociale troppo destabilizzante, controproducente per la stessa borghesia che rappresenta. In generale si prova a non andarci troppo leggeri, anche frenando interessi influenti che non hanno problemi a lasciar morire la gente (“se qualcuno muore, pazienza” come ha detto l’ex presidente di Confindustria Macerata, costretto a dimettersi per aver svelato quello che pensa l’intera sua categoria).
Soprattutto dopo che aver ritardato a marzo la zona rossa nel cuore industriale del Paese ha costretto a un lockdown molto più duro e duraturo su scala nazionale e suscitato un’ondata di protesta nelle fabbriche.
Negli Stati Uniti di Trump, invece, il piano è stato quasi dichiaratamente eugenetico, il virus viene lasciato libero di falciare la popolazione, soprattutto le fasce più deboli e povere17. In ogni caso il quadro di fondo è lo stesso e la campagna di vaccinazione, più che rappresentarne un momento di novità radicale, è il prosieguo di questa logica con altri mezzi. A parità di sale d’attesa e obitori pieni, permette all’economia una maggiore ripartenza. A parità di ripartenza economica, svuota relativamente sale d’attesa e obitori a seconda degli indirizzi del governo di ciascun paese. A spese del resto del mondo, in gran parte privo delle scorte vaccinali sufficienti, UE, Canada, Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda si sono assicurati dosi pari a quasi due o tre volte la propria popolazione18.
E parzialmente del proprio, nel caso emergesse nella parte del mondo priva di immunità una mutazione capace di aggirare la barriera vaccinale e far tornare il virus in quella immunizzata. Ma anche in quel caso però, le piattaforme già sviluppate per gli attuali vaccini potranno probabilmente essere convertite in tempi rapidi per lo sviluppo di nuovi19 (lasciando ancor più indietro il resto del mondo). Un’operazione che lascerebbe in quel lasso di tempo nuovi morti, è vero. Ma anche nuovi profitti.
I vaccini emergenti
L’amministrazione Trump ha espresso nella maniera più sfacciata l’arroganza di questo potere abbandonando nel pieno della pandemia l’Organizzazione Mondiale della Sanità di cui gli Stati Uniti erano il principale finanziatore. Definendola “un burattino della Cina” per la frustrazione di non esserne gli incontrastati burattinai, gli USA non hanno neanche aderito al progetto COVAX, unico grande paese al mondo a esserne fuori (insieme alla Russia che, come vedremo, ha accordi con diversi paesi per distribuire il suo vaccino). Piuttosto, all’insegna dello slogan “America first”, hanno avviato l’operazione “Warp speed”, con cui hanno riempito di centinaia e centinaia di milioni di dollari le tasche delle aziende farmaceutiche al fine di velocizzare lo sviluppo del vaccino e assicurarsene le scorte.
Veri no-vax: in patria quando si tratta di riceverlo, all’estero quando all’opposto si tratta di lasciarlo accessibile agli altri.
“Warp speed” è un termine che definisce la velocità iperspaziale nella serie tv Star Trek. La classe dirigente nordamericana preferisce credere alle favole hollywodiane con cui ha rimbambito il proprio popolo, piuttosto che ai moniti dell’OMS per cui più che la supervelocità, ad assicurare l’efficacia del vaccino contribuisce la sua diffusione globale.
Con il celebrato ritorno degli USA dentro l’OMS, il nuovo presidente Joe Biden muterà probabilmente alcune scelte fatte dal suo predecessore ma di certo non metterà in discussione la sostanza di quel nazionalismo vaccinale che la stessa Organizzazione condanna, fatto di accesso prioritario ai vaccini e di tutela dei brevetti.
Biden al massimo si comporterà in maniera simile all’Unione Europea, che è stata capace di assicurarsi dosi di vaccino sufficienti a coprire più volte la propria popolazione e a gonfiare le tasche delle multinazionali farmaceutiche, mentre al COVAX ha lasciato le briciole.
Con alcune parziali eccezioni, come l’Ungheria, che ha ordinato per conto proprio una scorta del vaccino russo Sputnik V, e in parte di Germania e Francia, che si stanno assicurando qualche dose in eccesso, i paesi membri hanno messo da parte il proprio “nazionalismo particolarista”.
Se lo hanno fatto, è stato per rafforzare il “nazionalismo europeista” allargato di tutti loro messi insieme, cioè la volontà di rafforzare il polo imperialista europeo nel suo complesso che, pur nelle sue contraddizioni, con questa mossa segna un ulteriore passo in avanti nella ricerca di una tenuta rispetto alla situazione di crisi, dopo quello ancor più significativo del piano di ripresa economica “Next Generation EU”.
Ma se l’egemonia del capitalismo nordamericano ed europeo fa sempre più leva sulla forza e meno sul prestigio, a colmare il vuoto ci pensano i capitalisti che hanno generato. Anzi, ci pensa il capitalista per eccellenza, quello che fino a tre anni fa dominava la classifica di uomo più ricco del mondo, Bill Gates, che ora scalzato da Jeff Bezos si è riciclato nel ruolo di uomo ricco più buono del mondo.
La sua Fondazione è stata il secondo finanziatore in assoluto dell’OMS nel biennio 2018-19, subito dietro gli USA20 e come abbiamo visto è in prima linea nello sviluppo del vaccino sceso in campo per salvare l’umanità, o per meglio dire gli interessi generali della propria classe.
Nelle sue parole: “Penso a questo come ai bilioni che dobbiamo spendere per risparmiare i trilioni. Ogni mese in più che ci vuole per ottenere il vaccino è un mese in cui l’economia non può tornare alla normalità.”21
Se, a differenza di come credono alcuni suoi elettori, Trump non è di certo l’anti-Bill Gates, l’eroe venuto per scongiurare l’immaginario piano satanico del fondatore della Microsoft, è altrettanto vero che Bill Gates è l’anti-Trump, la faccia del capitale nordamericano che non vuole rinunciare al suo ruolo di garante del capitalismo globale.
O meglio, che ancora crede che questa sia la strategia migliore per contenere i propri concorrenti.
Come sostiene preoccupato il vicedirettore del Corriere della Sera Federico Fubini, infatti, “l’accaparramento delle dosi da parte dei Paesi ricchi sta creando nel resto del mondo un vuoto che Pechino si incarica di colmare alle proprie condizioni”22.
Condizioni che però gran parte del mondo trova molto generose. Dopo aver per prima sequenziato e reso pubblico il genoma del virus, la Cina già il 29 febbraio sperimentava su alcuni esponenti militari un vaccino della CanSino Biologics, azienda farmaceutica quotata alla borsa di Hong Kong.
Quello stesso vaccino, che si basa su un vettore virale (l’adenovirus che causa il raffreddore), è stato poi il primo al mondo a entrare nella fase di sperimentazione clinica, il 16 marzo, seguito immediatamente da quello di Moderna.
Allo stato attuale è uno dei tre vaccini prodotti nella Repubblica Popolare Cinese ad aver raggiunto o superato l’ultima fase, la terza, di sperimentazione clinica.
Gli altri due sono basati sull’antico (ed efficace) metodo dell’inoculazione di un virus inattivato e sono prodotti dalla Sinopharm, gigantesca compagnia pubblica, e da Sinovac, azienda privata quotata al Nasdaq fino a Febbraio 2019, quando ha congelato le sue azioni a seguito di uno scontro interno. Mentre già da mesi ne è stato autorizzato l’uso emergenziale in Cina, la terza fase di trial clinici, ora verso la conclusione, si sta svolgendo in diversi paesi di Asia, Africa, Medio Oriente e America Latina.
Paradossalmente “lo sforzo vaccinale cinese è ostacolato dal clamoroso successo registrato dal paese [nel] fermare la diffusione del virus […]. Mentre la furia della pandemia negli Stati Uniti permette ai trial di fornire rapidamente risultati, ‘la Cina ha debellato precocemente l’epidemia di coronavirus, perdendo così l’opportunità di testare l’efficacia dei propri vaccini’, dice l’epidemiologo Ray Yip […]. Così gli sviluppatori di vaccini cinesi sono andati all’estero”23. Di questa necessità Pechino ha fatto virtù. Mentre in patria sta assicurando la vaccinazione alle persone più esposte, come lavoratori della sanità, dei trasporti, del commercio dei surgelati, ma anche uomini di affari che viaggiano all’estero, al contempo porta avanti accordi a livello internazionale con decine di paesi (dal Brasile all’Indonesia, dal Marocco alle Filippine) che si riforniranno con i suoi vaccini.
Questo non significa soltanto profitti per le proprie imprese, ma anche, grazie ad accordi vantaggiosi, donazioni e prestiti, un miglioramento delle relazioni diplomatiche con i paesi compratori24. Si tratta della traduzione materiale di quello che all’assemblea dell’OMS a maggio Xi Jinping aveva annunciato come “il contributo della Cina per garantire la disponibilità e l’accessibilità economica dei vaccini nei paesi in via di sviluppo”, definendo il suo vaccino un “bene pubblico mondiale”.
Anche la Russia ha definito il suo Sputnik V “un ‘bene pubblico universale’, promettendone 1,2 miliardi di dosi entro il 2021 a cinquanta paesi, fra cui Cina, Corea del Sud, India, Kazakistan, Bielorussia, Brasile, Venezuela e Ungheria”25.
Il vaccino è stato sviluppato dal prestigioso Centro nazionale di ricerca epidemiologica e microbiologica N. F. Gamaleja (fondato in epoca zarista e nazionalizzato in epoca sovietica) e finanziato dal Russian Direct Investment Fund (il nome è in inglese), il fondo sovrano russo. È stato il primo vaccino al mondo a essere distribuito, venendo approvato dalla Russia prima che fosse conclusa la terza fase di sperimentazioni cliniche. Per questo si è attirato critiche e sospetti26, amplificati dalla consueta propaganda di mass media ben poco interessati alla verità quando si tratta di notizie che riguardano potenze concorrenti. I produttori hanno risposto creando un apposito sito internet multilingue che chiarisce la natura della (consolidata) tecnologia utilizzata, aggiorna quotidianamente i dati sperimentali e offre altre notizie e approfondimenti.
Il vaccino si sta rivelando sicuro ed efficace tanto che è nata una collaborazione con AstraZeneca, l’azienda inglese che produce il vaccino al momento più diffuso per svilupparne uno che combini entrambi, dato che la tecnica utilizzata è molto simile. La Russia è stata così capace di guadagnarsi una certa autonomia nella vaccinazione della propria popolazione (che passa però anche per l’acquisto di altri vaccini, ad esempio quello della cinese Sinovac), a cui lo Sputnik è offerto gratuitamente, e di dotarsi di un prodotto molto richiesto nel mercato internazionale per i prezzi competitivi a cui viene venduto.
A questo quadro va aggiunta l’India, famosa per essere “la farmacia del mondo”. È infatti la maggiore produttrice mondiale di farmaci generici, mentre è al terzo posto per volume e al quattordicesimo per valore nella fabbricazione di medicinali in generale27. Con i suoi bassi prezzi esporta in tutti i paesi del mondo ed è la maggiore fornitrice di quelli africani e di altri a basso reddito.
Anche i primi farmaci utilizzati per far fronte al Covid, come il Remdesivir e la controversa idrossiclorochina, sono prodotti in India o lì hanno una fase fondamentale della loro filiera produttiva. Quando ad aprile il premier Modi ha chiuso le frontiere alle esportazioni dei farmaci, Trump l’ha convinto a riaprire promettendo che gli Stati Uniti “non avrebbero dimenticato il gesto”28.
Oggi sono i grandi impianti indiani a produrre la maggior parte delle dosi globali di vaccini anti-Covid.
Innanzitutto quelli della Serum Institute of India, proprietà di Cyrus S. Poonawalla, il sesto uomo più ricco del Paese, e più grande azienda produttrice di vaccini al mondo, che ha stretto accordi con la AstraZeneca (inglese) e con la Novavax (statunitense) per produrre i loro vaccini, cosa che nel primo caso sta già avvenendo con ritmi giornalieri record.
Alcune aziende biofarmaceutiche indiane stanno sviluppando poi un proprio vaccino, tra cui uno che sta finendo la fase tre, il Covaxin, della Bharat Biotech, basato su virus inattivato. In questo modo Nuova Delhi riuscirà non solo a coprire il grande fabbisogno interno ma anche a esportare parte della propria produzione sia attraverso accordi bilaterali con paesi vicini come Bangladesh e Sri Lanka, ma anche più lontani come Marocco e Brasile, sia attraverso la piattaforma Covax29.
In questo contesto Europa e Nord America rappresentano il lato più sfacciato e predatorio dell’imperialismo, in cui sostegni statali, profitti dei grandi capitali ed euforia dei mercati finanziari lavorano in sinergia per accaparrarsi le risorse necessarie a mantenere la popolazione nella condizione di servirne e perpetuarne il potere, i guadagni, le speculazioni.
Non sono soli però. Sono costretti a fare i conti con altre potenze imperialiste affermate o in ascesa, che ne approfittano per costruire le proprie relazioni commerciali e diplomatiche attraverso altri mezzi, rappresentati in questo caso dai vaccini. Nonostante questo, di fronte ai ritardi di Pfizer e AstraZeneca, l’Agenzia Europea del Farmaco è entrata in contatto con la Russia per una valutazione del suo vaccino, a cui la cancelleria Merkel in persona ha dato segnali di apertura. Di fronte a questi segnali di debolezza, si è avviato un forte dibattito sulla rilocalizzazione (“reshoring”) di parte della filiera farmaceutica. In Italia è nato un maxi-progetto, come lo definisce Il Sole 24 Ore, che racchiude decine di altri sotto progetti di “big pharma, piccole e medie imprese, divisioni italiane di multinazionali” per ottenere parte dei fondi del Recovery Plan e avviare un piano di investimenti per “sottrarre l’Italia e l’Europa alla dipendenza da Cina e India”30.
Più che unire l’umanità di fronte al nemico comune, la pandemia sta rappresentando un ulteriore terreno di concorrenza intraimperialista.
3 A questo tipo di aiuti vanno aggiunti quelli della Banca Mondiale, nella forma di 12 miliardi di prestiti per l’acquisto dei vaccini e dei programmi di sospensione del pagamento del debito avviati insieme al Fondo Monetario Internazionale.
5 Si veda: Rutschman, A. S. (2021). Is There a Cure for Vaccine Nationalism?. Current History, 120(822), 9-14.
6 McAdams, D., McDade, K. K., Ogbuoji, O., Johnson, M., Dixit, S., & Yamey, G. (2020). Incentivising wealthy nations to participate in the COVID-19 Vaccine Global Access Facility (COVAX): a game theory perspective. BMJ global health, 5(11), e003627.
12 Qui la classifica: https://lowninstitute.org/projects/shkreli-awards/2020-shkreli-awards/. Notare come al secondo posto risulti Moderna, l’azienda produttrice di uno dei vaccini più quotati e il più costoso nonostante il miliardo di dollari di fondi pubblici che è riuscita ad accaparrarsi.
15 Così scriveva il Financial Times pochi giorni fa, in un parallelismo tra questa “pandemic tech bubble” e quella cosiddetta “dotcom” del 2000: “Proprio come se si spremesse un palloncino pieno d’acqua, il denaro in eccesso nel sistema sta causando rigonfiamenti che stanno diventando impossibili da sopprimere”.
16 Come scriveva il Guardian, secondo le previsioni ottimistiche “l’economia globale si riprenderà rapidamente non appena i programmi di vaccinazione di massa saranno in grado di superare la pandemia. Tuttavia, anche una forte crescita non costringerà le banche centrali e i ministeri delle finanze a ritirare gli straordinari stimoli che hanno fornito perché l’inflazione rimarrà bassa. Questi due fattori, un periodo di rapido recupero e una posizione politica benevola, incrementeranno i profitti delle imprese e giustificheranno quindi l’aumento delle valutazioni di borsa”. Per altri analisti citati nell’articolo però neanche il vaccino potrebbe evitare l’implosione di mercati finanziari ormai troppo sopravvalutati. Su questo si veda l’approfondimento dell’economista marxista Michael Roberts sul suo blog, secondo cui ”probabilmente nella seconda metà del 2021, i governi cercheranno di contenere la loro spesa fiscale e le banche centrali rallenteranno il ritmo delle loro politiche espansive. Allora i livelli estremi del rapporto tra i prezzi delle azioni e obbligazioni e i profitti e il capitale tangibile probabilmente si invertiranno, come fa uno yo-yo quando la corda viene tirata riportandolo alla realtà di essere fissato a un supporto (capitale reale).”
17 Su tutte, si veda l’intervista all’epidemiologa di Harvard Nancy Krieger, che ha pubblicato numerosi studi sulla questione: “How the U.S. Messed Up Covid-19 So Badly”, elemental, 20 novembre 2020.
19 Questo dipende dal sito e profondità della mutazione e dal tipo di vaccino utilizzato. In genere però la tecnologia a mRNA utilizzata ad esempio Pfizer sarebbe quella più capace di fornire un nuovo vaccino in tempi rapidi. Ma è una tecnologia costosa che pochi sviluppatori potrebbero permettersi e che per la sua distribuzione dipende da una complessa “catena del freddo” che rischia di tagliare fuori molti paesi.
20 Con l’interruzione dei finanziamenti da parte degli USA è subentrata la Germania con un record personale di donazioni, passando in testa alla classifica dei maggiori donatori dei primi tre trimestri del 2020, seguita dalla Fondazione Gates: https://open.who.int/2020-21/contributors/contributor .
24 “In ogni caso, l’applicazione di un vaccino cinese assumerà un significato geopolitico più ampio. La Cina ha già offerto un miliardo di dollari in prestiti all’America Latina e ai Caraibi per l’accesso al vaccino, mentre la rivalità sino-indiana ha trovato un nuovo punto focale intorno alla fornitura di vaccini in Bangladesh. In Brasile, la diplomazia cinese per il vaccino ha messo il presidente trumpista Jair Bolsonaro contro il governatore di San Paolo, che vuole acquistare 46 milioni di dosi di vaccino Sinovac.” Da Jacob Mardell, “China’s vaccine diplomacy assumes geopolitical importance”, Mercator Institute for China Studies, 24 Novembre 2020.
25 Elena Dusi, “Il virus non ha confini. E i vaccini?”, Limes, numero 12/20 – Il Clima del Virus.
26 Burki, Talha Khan. “The Russian vaccine for COVID-19.” The Lancet Respiratory Medicine 8.11 (2020): e85-e86.
27 Si veda il rapporto “India: pharmacy of the world”, Luglio 2020, di Invest India, l’agenzia indiana per gli investimenti dall’estero.