Venti di nuove guerre ma non contro il Covid19

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Sull'onda della pandemia sono emersi i nuovi Crociati con i caccia bombardieri al posto delle spade.

Alan KurdiPapa Francesco ha incontrato a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, il padre di Alan Kurdi, il bambino siriano di tre anni che annegò nel 2015 mentre tentava con la sua famiglia di arrivare in Turchia e la cui foto diventò il simbolo della tragedia dei migranti causata dalla guerra.Rimane il manifesto alto quanto un palazzo di cinque piani, che ritrae Papa Francesco con il Grand Ayatollah Sayyid Ali Al Husayni Al Sistani massima autorità religiosa dei musulmani sciiti. Si sono incontrati a Najaf la terza città sacra per i musulmani sciiti dopo la Mecca e Medina che ospita la tomba di Alì, genero e cugino di Maometto.

“Il loro colloquio apre una finestra di collaborazione anche con il mondo degli sciiti”, ha dichiarato al termine dell'incontro il direttore della sala stampa stampa vaticana Matteo Bruni. Fin qui la cronaca.

E’ difficile immaginare in quale misura il novantenne Sistani e l’ottantaquattrenne pontefice possano contribuire “al bene dell’Iraq, della regione e dell’intera umanità", dal momento che il settantottenne presidente americano Joe Biden ha risfoderato i cannoni, bombardando la Siria, alla vigila del viaggio del Papa in Iraq.
Certamente il suo è un segnale, un avvertimento.  Infatti, alla sua intronizzazione Biden aveva detto: “L’America è tornata”, e con essa sono tornate le bombe su quello stesso territorio che l’America di George W. Bush aveva invaso nel 2003.

Anche a quel tempo risuonò l’invocazione a Dio, ma a pronunciarla non fu un prete, bensì - 20 ottobre 2003 - il generale del Pentagono G. Boykin, incaricato di procedere alla cattura di Osama bin Laden, di Saddam Hussein e della sua corte.

Egli affermò, durante un’intervista, di sentirsi impegnato nella lotta “contro Satana” e ne spiegò pure il perché. « Sono consapevole », disse, « che il nostro Dio è il più grande, è il vero Dio, mentre quello dell’avversario è un idolo. E lo affermo con il cuore sereno poiché non mi ritengo né un fanatico né un estremista, ma soltanto un soldato con una fede profonda ».

Non era la sua una dichiarazione solitaria. Da allora altre ne seguirono da parte di personaggi altrettanto autorevoli, amplificate puntualmente dai media americani, che non mancarono di rammentare che nel seguito di George W. Bush c'erano molti rappresentanti della Chiesa evangelica tutti accomunati, come il Presidente, da un rinnovato fervore patriottico e perciò religioso. Tutto questo suonerebbe molto strano se non si sapesse che la religione è stata ed è un elemento fondamentale, sicuramente quello centrale, dell'identità americana, l’evoluzione della quale è stata plasmata per quasi quattro secoli dai movimenti religiosi. Non a caso il cattolico Joe Biden all’epoca presidente della Commissione Esteri del Senato era tra i più zelanti sostenitori  della guerra "contro Satana".

Bush34L'ex presidente George W. Bush con (in secondo piano) Joe Biden nel 2003 durante una conferenza stampa.In quegli anni il politologo Samuel Huntington era diventato un personaggio di spicco predicando che, l'identità tradizionale americana è costruita intorno al "The Creed", il Credo, ossia la fede tipicamente americana nella libertà, nella democrazia, nei diritti individuali.

Il personaggio Huntington era molto ascoltato e molto discusso da quando aveva pubblicato: “Lo scontro di civiltà e la ricostruzione dell’ordine mondiale” nel quale teorizza un “Clash of Civilization”, uno “scontro di civiltà”, avvertendo che: « nell’epoca che ci apprestiamo a vivere, gli scontri tra civiltà rappresentano la più grave minaccia alla pace mondiale, e un ordine internazionale basato sulle civiltà è la migliore protezione dal pericolo di una guerra mondiale ».
Pertanto, egli ricordava che, "se fino a ieri il diventare americano aveva, di fatto, sempre richiesto due shifts: quello dalla lingua ancestrale, l'Inglese unito a quello della religione ancestrale: il Protestantesimo o a una religione vicina a quest'ultima, tutto questo non avviene e le ragioni sono diverse", sosteneva Huntington 2003
Le sue esternazioni erano supportate dal fatto che, negli Usa vivono minoranze ispaniche con una crescita esponenziale e ci sono luoghi dove lo spagnolo è non soltanto la prima, ma  l'unica lingua (in particolare Florida e California). Non va dimenticato  che, le ondate di clandestini messicani si insediano su un territorio che nel 1840 era stato strappato al Messico con una vittoria militare.
 
Inoltre, poiché siamo in argomento, va pure ricordato che, negli Stati Uniti vivono  sei milioni di musulmani, la maggior parte dei quali  non ha origini arabe. Infatti, il 40 per cento dei musulmani è afro-americano, il 25 per cento sono Indo-Pakistani e il restante 35 per cento è composto da arabi, afghani, turchi, africani e caucasici (uzbeki, turkmeni, tartari etc…). Una parte consistente degli Arabi-Americani non sono musulmani, ma cristiani (i primi gruppi di immigrati negli Usa arrivarono alla fine dell’ Ottocento e si trattava perlopiù di cristiani provenienti dalla Siria e dal Libano). Circa i tre quarti degli Arabi-Americani sono immigrati negli Stati Uniti dopo il 1965.
 
Queste realtà non basterebbero a spiegare la crisi identitaria americana. Molto vi aveva influito, secondo gli esperti, la scomparsa dell'Unione Sovietica nella quale gli americani vedevano la negazione speculare della propria identità, e si sentivano pertanto portati a sostenere con vigore –urbi et orbi- la propria city on the hill.
Con la scomparsa del nemico di sempre, era venuta meno anche la voglia di identità, e il multicultularismo spinto a livello estremo aveva fatto sì che molti americani vi avessero addirittura rinunciato. Poi è arrivato l’attacco alle due Torri e i neoconservatori ne hanno approfittato rilanciando la provocazione di Huntington e scatenando un gran chiasso mediatico. Così alla cosmopolitan America è subentrato il concetto della imperial America con il suo slogan: «invece di essere il mondo a plasmare l'identità americana, sarà l'identità americana a ridefinire il mondo ».

Su come questo potesse e possa avvenire vale sempre l’invito di Huntington: « gli americani di tutte le etnie provino a rinvigorire il Credo originario ». Questo avrebbe facilitato, secondo il consulente del Pentagono, un movimento in difesa di  una nazione principalmente cristiana e fervidamente religiosa, che comprenderebbe al suo interno una vasta gamma di minoranze religiose. E dunque - spiegava Huntington - sarebbero  prevalsi negli Usa i valori anglo-protestanti, si  sarebbe continuato a parlare inglese, e la nazione sarebbe rimasta fedele al suo Credo. Insomma quanto bastava per mobilitare personaggi come il buon soldato generale Boykin. Sebbene la tesi di Huntington sullo scontro di civiltà risulti superficiale e politicamente pericolosa, è servita all’America dei neoconservatori a supportare l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq. « I governi dei paesi musulmani », scriveva Huntington, « avranno rapporti probabilmente sempre meno amichevoli con l’Occidente, e tra gruppi islamici e società occidentali si verificheranno di tanto in tanto scoppi di violenza ora contenuti ora anche molto intensi ». Pertano la tesi del “Clash of Civilization” è rimasta la “profezia che si autoavvera” ad usum dei media per una amplificazione planetaria.

apaGli americani – lo abbiamo sentito ripetere sino a non poterne più – hanno attaccato l’Iraq «per il petrolio», perché volevano porre riparo alla riduzione delle loro riserve mettendo le mani sulle ricche risorse irachene. Ma ci sono ragioni profonde che si condensavano nel lavoro intellettuale e politico di un piccolo nucleo di neoconservatori a iniziare da Norman Podhoretz, Richard Pearle, David Frum, Bernard Lewis, Fuad Ajami e dal “prediletto” del presidente George W. Bush, l'ex dissidente sovietico e politico israeliano di destra Natan Sharansky.

Uomini accomunati dalla stessa visione del mondo musulmano, che,  secondo costoro è segnato dalla decadenza, dovuta ai difetti culturali, psicologici e religiosi delle società islamiche. Questa caratteristica “ genetica “ spiegherebbe - secondo quei dotti signori - l'ondata di violenza terroristica che si frapporrebbe come ostacolo a una democratizzazione concepita come l'unico rimedio possibile a tutti questi mali. Di fronte a questo terrorismo che, in qualsiasi momento, può ricorrere alle armi di distruzione di massa - chimiche, batteriologiche, perfino nucleari - l'America, secondo i “ neocons “, di ieri e di oggi, non può aspettare, bensì deve agire per modificare il corso della storia nel mondo arabo-islamico, eliminarne le tare e costringerlo a democratizzarsi. Soltanto gli Stati Uniti possono farsi carico di tale compito, ricorrendo alla forza, se necessario. 

Insomma, l'invocazione astratta della “ democrazia “ serve da sempre da giustificazione ultima alle azioni dell'America, un po' come, in tempi non lontani, accadeva con il “ socialismo reale “ dell'Unione Sovietica.

E’ una configurazione di convinzioni, che mette insieme il fondamentalismo cristiano di destra, il sionismo americano militante e un militarismo senza limiti, per certi versi seducente nella sua perversione. Avvolta nel mito della bandiera, della famiglia e della Chiesa, la politica interna americana si proiettava verso l'esterno assumendo la forma di una politica aggressiva, unilaterale e arrogante. È questo il “ blocco ” che guidò l'intervento in Iraq e altrove, giustificando la violenza e smentendo i propri discorsi altruistici.

Una tra le tante accuse rivolte all’ex presidente Donald Trump è quella di aver incoraggiato e di aver contribuito con i sui interventi mediatici, alla desaclarizzazione crescente dell'elemento politico e del concetto di Stato. Joe Trump, da come ha iniziato a muoversi, sta manifestando la volontà di instradare la Nazione sulla rotta collaudata, un ritorno al passato con un reset di aggiornamento. Infatti, ha ribadito - anche nei suoi discorsi più recenti - che l’America riconquisterà il suo primato nel mondo.  Insomma una testimonianza di “fede” dal sapore di crociata, con i bombardieri al posto delle spade.

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Vincenzo Maddaloni
Vincenzo Maddaloni ha fondato e presiede il Centro Studi Berlin89, l'associazione nata nel 2018, che si propone di ripercorrere analizzandoli i grandi fatti del mondo prima e dopo la caduta del Muro di Berlino. Professionista dal 1961 (per un decennio e passa il più giovane giornalista italiano), come inviato speciale è stato testimone in molti luoghi che hanno fatto la storia del XX secolo. E’ stato corrispondente a Varsavia negli anni di Lech Wałęsa (leader di Solidarność) ed a Mosca durante l'èra di Michail Gorbačëv. Ha diretto il settimanale Il Borghese allontanandolo radicalmente dalle storiche posizioni di destra. Infatti, poco dopo è stato rimosso dalla direzione dello storico settimanale fondato da Leo Longanesi. È stato con Giulietto Chiesa tra i membri fondatori del World Political Forum presieduto da Michail Gorbačëv. È il direttore responsabile di Berlin89, rivista del Centro Studi Berlin89.
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