Iran, velo o non velo. Non è questo il problema

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«Nel novembre scorso mi sono fermata due settimane a Teheran e ho visto donne di tutte le età camminare liberamente per le strade senza l'hijab. Ma quello che non ci viene detto è che lo fanno da anni.», scrive e ne spiega il perché la scrittrice iraniana Sharmine Narwani in questo articolo che volentieri pubblichiamo.

Iran velo

L'esplosione di proteste in Iran iniziata a settembre non riguardava nello specifico la "legge sull'hijab" della Repubblica islamica, ma gli abusi e gli eccessi della cosiddetta polizia religiosa islamica - il

– contro le donne iraniane considerate dagli agenti immodestamente vestite. Il malcontento pubblico è stato innescato dalla morte ampiamente pubblicizzata di Mahsa Amini , che è stata arrestata dall'Ershad ed è morta mentre era sotto la loro custodia.

Anche se le riprese video diffuse dalle autorità di polizia iraniane hanno mostrato che Amini era svenuta probabilmente a causa della sua storia di salute personale, come indica la sua autopsia ufficiale , e non per presunte "percosse", gli iraniani continuano a sostenere il contrario. Nelle settimane successive, le proteste si sono trasformate in rivolte e sono state uccise persone, sia civili che forze di sicurezza.

La domanda è dove questi recenti eventi porteranno l'Iran, e se l'opinione pubblica sull'hijab sarà affrontato dagli organi di governo del paese, e come sarà risolto.

La vita in Iran non è quella descritta dai media occidentali

L'Iran non è affatto la "dittatura caricaturale" spesso rappresentata dai media mainstream occidentali. Il leader supremo, l' Ayatollah Ali Khamenei è pur sempre l'autorità a cui spetta la decisione finale sulle questioni di grande rilevanza strategica, è un privilegio che raramente esercita per sedare le critiche interne. Contrario com'era ai colloqui sul nucleare iraniano con le potenze occidentali, Khamenei  aveva concesso ampia libertà al governo dell'ex presidente Hassan Rouhani di procedere con il suo programma negoziale, in armonia suo desiderio di normalizzare le relazioni economiche e porre fine all'allora isolamento dell'Iran.

Probabilmente non c'è figura in Iran che si sia mossa con la stessa veemenza di Khamenei nel raccomandare che, non ci si deve fidare mai e poi mai dell'Occidente, e che la più grande potenza dell'Iran risiede nella sua autosufficienza economica e nella completa indipendenza dal mondo dominato dall'Occidente. Eppure Khamenei si è messo in disparte e ha permesso all'amministrazione Rouhani di perseguire una politica in contrasto con le sue più profonde convinzioni. L'Iran non è una repubblica presidenziale, le decisioni vengono prese in collaborazione o in controversie accese e spesso pubbliche che si svolgono sui media iraniani, nei dibattiti parlamentari o a porte chiuse.

In buona sostanza, oggi l'Iran ha tre principali centri di potere: in primis, il leader Supremo e i suoi vari organi rivoluzionari statali che includono l'esercito, le forze di polizia, il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC) e le forze Basij fatte di volontarii. Poi c'è il governo iraniano con le sue istituzioni statali che includono il presidente eletto, il suo gabinetto, i vari ministeri  e il parlamento. Infine, l'hawza (seminario) di Qom, il centro religioso dell'Iran, del quale fanno parte migliaia di studiosi, autorità e influencer sciiti demandati all'interpretazione dei versetti del Corano, delle azioni e dei comportamenti che vanno osservati nella Repubblica islamica.

Tutti e tre i centri di potere hanno un impatto sulla politica statale in modi diversi e le loro fortune sono salite e scese in momenti diversi. All'interno di ciascuno di questi centri esiste una vasta rete di sostenitori, istituzioni, media, interessi economici e personalità influenti. I tre centri, come è in uso nelle società democratiche, si confrontano tra di loro, con il desiderio di ciascuno di vedere realizzati i propri progetti.  

L' immaginare che una singola persona o organo decisionale possa emettere una direttiva su una questione così intricata e simbolica come l'hijab, significa essere assolutamente all'oscuro della complessità e diversità del giudizio all'interno del mondo politico della Repubblica islamica.

Per le strade di  Teheran: una esperienza molto personale

A metà Novembre, ho trascorso due settimane a Teheran durante le quali, ho notato differenze significative  rispetto alle mie visite precedenti, che si sono interrotte a gennaio del 2020 a causa delle restrizioni dovute al Covid. Durante la mia precedente visita nella capitale iraniana nel 2019, di tanto in tanto vedevo donne iraniane sedute senza hijab nei ristoranti. Oggi, invece, sono molte le signore che passeggiavano per le strade, nei centri commerciali, all'aeroporto, nei bazar tradizionali, nelle università e nei parchi, sia nei quartieri alti che in quelli del centro, senza il consueto copricapo. E' questa la realtà intorno alla quale si è scatenato il dibattito sull'hijab; proprio perché questa tendenza alla “ testa scoperta” non  si è iniziata a settembre con le proteste, ma molto, molto prima. Questo dettaglio , non certamente secondario non viene affatto menzionato nella narrativa dei media occidentali.

Iran velo 60qMolte donne iraniane – nei tre anni trascorsi dalla mia ultima visita – avevano lasciato cadere il velo e la scene come nella mia foto a lato sono state la norma per anni. La pandemia ha aiutato ad allentare le norme sociali in questi anni? Nessuno a cui ho chiesto ha avuto una risposta chiara. "È appena diventato normale", era un ritornello comune. Oggi puoi vedere donne iraniane – giovani e meno giovani – senza hijab, con il velo e con il più tradizionale chador lungo fino al pavimento che camminano insieme per le stesse strade; ognuno fa le proprie cose e si fa gli affari propri.

È una evoluzione affascinante, perché per legge in Iran l'hijab è obbligatorio. Eppure nessuno applica forzatamente questa legge finché l'Ershad non è  tornata sulla scena. Questo è importante saperlo, perché l'Ershad non è sempre presente, in ogni momento. Sebbene sia un organismo funzionante dal 2006, le autorità iraniane sembrano mobilitarli solo a intervalli specifici: forse perché Qom sta diventando irrequieto per questioni morali, o perché i conservatori vogliono prevaricare sui riformisti, o  perchéci sono tensioni geopolitiche ai confini del paese. Il punto è che la presenza  dell'Ershad non è mai stato una costante per le strade dell'Iran, ma di solito è il risultato di un  qualcosa che accade politicamente da qualche parte nel paese.

L'hijab è un 'simbolo' della Repubblica islamica

Tuttavia, dopo tre mesi di proteste e disordini , la questione dell'hijab sembra essere giunta al culmine tra i tre centri di potere in perenne competizione tra di loro. Nella mia esperienza personale, i militi della sicurezza iraniana che operano sotto l'autorità di Khamenei, sono i meno accaniti sull' osservanza dell'hijab. Si concentrano sulle infiltrazioni straniere, sul sabotaggio, sulle operazioni antiterrorismo e di guerra, non sulla qualità della vita e dei comportamenti quotidiani delle persone.

L'hijab è un 'simbolo' della Repubblica islamica, e i simboli – come abbiamo visto in innumerevoli guerre ibride condotte in Asia occidentale e in oltre regioni – sono i primi e i più facili bersagli ottimizzati dai provocatori esterni. Che si tratti di cambiare i colori della bandiera nazionale per simboleggiare l'opposizione, o creare canzoncine per sostituire l'inno nazionale, o incoraggiare le donne a togliersi il velo e filmarlo, questi sono i frutti della guerra ibrida .

In un'intervista del gennaio 2018 di una pubblicazione di nicchia, i cui lettori sono specificamente i funzionari della sicurezza, mi è stato chiesto dell'uso di questi strumenti in Siria e Iran. La mia risposta è stata la seguente:

« Slogan simbolici, striscioni e oggetti di scena sono un punto fermo delle 'rivoluzioni colorate' in stile occidentale. L'Iran ha visto il pieno impatto di questi strumenti nel movimento "verde" durante le elezioni del 2009. L'uso di strumenti visivi (un'immagine vale più di mille parole) per riassumere un tema o un'aspirazione immediatamente comprensibile a un vasto pubblico: questo è il marketing di base. Di solido accade durante le campagne elettorali, ma ora questi concetti vengono effettivamente utilizzati nella guerra dell'informazione a livello geopolitico.

« L'uso della bandiera verde dell'era coloniale in Siria, è stato un modo semplice per attirare rapidamente un numero sempre maggiore di popolazione siriana nella tenda dell'"opposizione". In buona sostanza, chiunque avesse un rancore con il governo – politico, economico, sociale, religioso – sarebbe invitato a identificarsi con il movimento di protesta sotto questa nuova bandiera. 

« Gli attivisti siriani hanno iniziato a mobilitare le masse "denominando" le proteste del venerdì, usando un linguaggio che cercava di plasmare la direzione dell'opposizione e di islamizzarla lentamente. Gli slogan sono facili trucchi di propaganda da utilizzare per attirare membri "non impegnati" della popolazione ad abbracciare una posizione antigovernativa. Gli strumenti di identità sono una componente essenziale delle operazioni di cambio di regime. Devi delegittimare i simboli nazionali esistenti per crearne di nuovi.

« In Iran, l'immagine della giovane donna senza hijab è diventata rapidamente uno dei simboli delle proteste sui social media. Ironia della sorte, l'hijab potrebbe potenzialmente essere visto come un "supporto dell'identità" per la rivoluzione islamica del 1979, un simbolo che, identifica immediatamente una visione politica e religiosa peculiare. Di conseguenza, negli attacchi di propaganda contro l'Iran, sostenuti dall'estero, l'hijab è l'obiettivo prioritario da delegittimare o deridere.».

L'intervista è stata pubblicata insieme a una mia foto senza hijab. Poche settimane dopo, ho ricevuto un messaggio da un importante analista iraniano che, secondo quanto riferito, è strettamente affiliato alla Forza Quds dell'IRGC. Ha inviato uno screenshot dei miei commenti sull'hijab e, con mia grande sorpresa mi disse che era pienamente d'accordo con le mie valutazioni.

In un'altra occasione, la pubblicazione iraniana Javan , sostenuta dall'IRGC,  ha richiesto un'intervista insieme alla traduzione di uno dei miei articoli sulla Siria. Ancora una volta, hanno pubblicato una mia foto senza l'hijab.

I teologi di Qom hanno un diavolo per capello

In poche parole, l'hijab non è una questione prioritaria per il settore della sicurezza iraniana. Hanno pesci più importanti da friggere. Ma è un argomento vitale per i teologi dentro e fuori Qom.

E forse anche per i milioni di donne iraniane che scelgono di indossarlo, e non vogliono essere vittime di bullismo, come lo erano le loro nonne nel 1936, quando l'allora monarca Reza Shah Pahlavi bandì il tradizionale copricapo islamico. “Con il divieto dell'hijab, molte donne sono rimaste in casa per anni o sono uscite di casa solo al buio o nascoste all'interno delle carrozze per evitare il confronto con la polizia che, se necessario, avrebbe usato la forza per scoprirle. Anche le donne cristiane ed ebree più anziane hanno trovato difficile rispettare il divieto del velo", scrive Maryam Sinaee - ironicamente, per la pubblicazione sostenuta dai sauditi Iran International , che al giorno d'oggi fa propaganda 24 ore su 24, 7 giorni su 7 a  sostegno degli oppositori iraniani.

A parte queste questioni, i leader della sicurezza iraniana hanno un argomento sostanzioso da sottoporre all'attenzione del clero: "L'hijab che rispettiamo, è entrato nel regno della sicurezza nazionale. I provocatori sostenuti dagli stranieri hanno utilizzato l'hijab come arma per promuovere operazioni di cambio di regime. Il nostro compito è di impedire questo sacrilegio".  Questa non è una posizione che il clero può sostenere visti i recenti avvenimenti. Probabilmente è per questo che le autorità iraniane stanno prendendo in considerazione una serie di opzioni, tra cui la sospensione o lo scioglimento dell'Ershad, da sostituire con un programma di apostolato per insegnare e consigliare la modestia islamica in tutto il paese , sia per gli uomini che per le donne.

Gli Ershad – istituiti sotto l'amministrazione dell'ex presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad – sono fuori delle regole sul come hanno reagito alle proteste, e lo sono stati per molte settimane. Pertanto i tre principali centri di potere iraniani sono impegnati in discussioni su come calmare le tensioni  e affrontare questo risentimento sociale tra i vari segmenti della popolazione.

È interessante notare che questa evoluzione  rispecchia in qualche modo quella dell'arci-rivale Arabia Saudita, dove i mutawa, la polizia religiosa saudita, sono stati privati - nel 2016 con un decreto reale - ​​dei loro poteri e privilegi un tempo incontrollati. Da allora, è diventato più comune vedere donne scoperte pubblicamente e non indossare il tradizionale abaya nero sopra i loro vestiti normali, nonostante non ci sia mai stata una legge scritta saudita che lo imponesse.

I teologi della città santa di Qom non accetteranno mai di revocare la legge sull'hijab. Tuttavia si continua a discute merito a una   applicazione troppo zelante del velo. Come molte leggi  che pur non diventando operative rimangono sui libri, come accade in tutti i paesi del mondo, la legge iraniana sull'hijab potrebbe subire la stessa sorte. Si tenga a mente però che,  mentre possiamo aspettarci una legalizzazione della tolleranza sull'obbligatorietà  dell'hijab, non ci sarà alcuna pietà per tutti coloro i quali hanno  cercano di utilizzare questo simbolo di religiosità per distruggere la Repubblica islamica dell'Iran.

Traduzione: Laura Menti


Narwani Sharmine NarwaniSharmine Narwani è una scrittrice e analista di geopolitica dell'Asia occidentale con sede a Beirut. I suoi scritti sono stat pubblicati in una vasta gamma di media, tra cui The American Conservative, Russia Today, The New York Times, USA Today, The Guardian, Al-Akhbar English, Assafir, Huffington Post, BRICS Post, Salon.com. 

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