All'ombra del muro Italia e mondo tedesco ridisegnano il futuro
L'intento è di mettere al centro della società globale la creatività, l’inventiva, una progettualità coraggiosa come antidoto alla stagnazione perseguendo l'obiettivo di un futuro possibile.
Il 6 giugno 1944, nella campagna laziale, un soldato della Wehrmacht appena scampato dall’inferno della battaglia di Nettuno, sceglieva il difficile cammino della diserzione.
Il fiume in fondo alla valle, le rocce frastagliate, le colline con gli alberi: nella mia carta la regione era indicata come ‘campagna diserta’. ‘Diserta’ pensai. Ha la stessa radice del deserto, dunque è il vero terreno per un disertore. (…) Battezzai le mie ciliegie chiamandole ciliegie diserte, ciliegie da disertore, ciliegie selvatiche nel deserto della mia libertà.
Cronista di questa diserzione è lo scrittore Alfred Andersch che con il romanzo Die Kirschen der Freiheit (1952, Le ciliegie della libertà, Mondadori 1958) inaugurava un rapporto nuovo con l’Italia all’indomani della comune catastrofe della guerra, invocando, come cofondatore del Gruppo 47, un nuovo ordine democratico europeo, un “socialismo umanistico”
da costruire sulla base dei rapporti fra le avanguardie letterarie della Resistenza, in particolare francese e italiana. In una delle prime rappresentazioni narrative di autori tedeschi ambientate in Italia nei canoni di un realismo imposto dalle circostanze storiche, si riannoda il filo di un transfer culturale fra Italia e Germania dopo la sostanziale cesura del dodicennio nazionalsocialista e del ventennio fascista.
Ma come si configura e si sviluppa questo transfer dopo il 1945 e nei decenni successivi? Può considerarsi superato o almeno rivedibile, limitandomi al campo letterario, il carattere asimmetrico, lo sbilanciamento, nella reciproca ricezione, dovuti alla maggiore attrazione dei Tedeschi per l’Italia e non viceversa? Come scrisse qualche anno fa Claudio Magris:
Nella nostra letteratura non esiste, per quel che riguarda i rapporti con la Germania, nulla di paragonabile (…) a ciò che significa il Viaggio in Italianella letteratura tedesca. (…) L’Italia non ha mai provato, per la Germania, quell’appassionato richiamo, quella struggente nostalgia che attirano irresistibilmente la goethiana Mignon verso il “paese dove fioriscono i limoni” come se questo fosse la vita stessa, la sua essenza segreta.
Una reale ritessitura del transfer letterario fra Italia e Germania e più in generale con i paesi di lingua tedesca, si riavvia negli anni Cinquanta. Le venature utopistico-libertarie nel romanzo Le ciliegie della libertà di Andersch, autore fra l’altro della prefazione al Diario in pubblico (Offenes Tagebuch, Walter 1959) di Elio Vittorini, legate al modello di letteratura engagé rappresentato in Francia da Sartre e in Italia dallo stesso Vittorini, interagiscono e si sovrappongono nel panorama italiano con il crudo bilancio di un nazionalsocialismo residuale ma ancora vivo come nel romanzo di Wolfgang Koeppen Der Tod in Rom (1954) (La morte a Roma, Einaudi 1959, riproposto nel 2008 da Zandonai Editore con una incisiva postfazione di Michele Sisto) in cui biechi e lugubri nazisti superstiti si danno convegno nella capitale romana per ricucire legami familiari e riaffermare il folle credo hitleriano. «Così brutti i tedeschi non li ho mai dipinti neanch’io», scrisse Cesare Cases nel suo parere di lettura per Einaudi. «Più che un romanzo, lo si direbbe un lungo pamphlet antitedesco, un gesto di schifo e di totale condanna verso una certa Germania, tutt’altro che scomparsa», lo giudicò la rivista «Il Contemporaneo», contigua al PCI. Il flop di vendite e di risonanza in Italia nel 1959 di quest’opera sconvolgente nella sua implacabile quanto mannianamente decadente denuncia della colpa tedesca fu la conferma che anche nel nostro paese i tempi non erano ancora maturi per un’ operazione tanto chirurgica.
Va da sé che le modalità di un transfer culturale nelle relazioni fra letterature di paesi diversi si attuano tramite la comunicazione, in questo caso editoriale, e per quanto riguarda l’Italia l’ingresso di una nuova generazione di editori, in particolare Einaudi e Feltrinelli che si affiancano con nuovi progetti alle tradizionali Mondadori e Bompiani determinando concorrenza e un fecondo allargamento di scenari e proposte parallelamente a un impetuoso processo di denazionalizzazione della letteratura. Grazie a Feltrinelli il lettore italiano può accostarsi agli autori svizzeri Friedrich Dürrenmatt, del quale è pubblicato il dramma Der Besuch der alten Dame (La visita della vecchia signora, 1959) e il romanzo Das Versprechen (La promessa, 1959), e Max Frisch di cui esce ancora nel 1959 il romanzo Homo faber.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta la narrativa italiana entra infatti copiosa in Germania, grazie a case editrici come Desch di Monaco, che propone quasi tutte le opere di Alberto Moravia fra le quali Gli indifferenti (Die Gleichgültigen, 1956) e Il conformista (Der Konformist, 1960). Il nome di Cesare Pavese è legato alla casa editrice Claassen di Amburgo che dopo La luna e i falò (Junger Mond, 1954) e i Dialoghi con Leucò(Gespräche mit Leuko, 1958) curò fra il 1967 e il 1977 un’edizione complessiva. Piper di Monaco pubblicò, già nel 1963, Una vita violenta (Vita violenta) di Pasolini; Fischer presenta le opere di Italo Calvino, fra cui Il visconte dimezzato (Der geteilte Visconte, 1957), Il barone rampante (Der Baron auf den Bäumen, 1960), Il cavaliere inesistente(Der Ritter den es nicht gab, 1963) e soprattutto di Primo Levi, Se questo è un uomo (Ist das ein Mensch?, 1961), forse il primo documento di letteratura concentrazionaria.
In parallelo si registra una ricezione in Italia della Trümmerliteratur, di una letteratura delle macerie morali e materiali, di una narrativa inventariale, di ciò che era rimasto e che si poteva ricostruire con una generazione di reduci che raccogliendosi in parte nel Gruppo 47 documentava la catastrofe e tentava di purificare un linguaggio torbido di storia recente e di sangue, come documentava Victor Klemperer nel suo diario durante il Nazismo LTI Lingua Tertii Imperii. Notizbuch eines Philologen (Aufbau, 1947) che ancora nell’edizione del 1969 riportava il sottotitolo allusivo Die unbewältigte Sprache e tradotto in italiano da Giuntina solo nel 1999. La disperazione del reduce, respinto dal fiume Elba in cui vorrebbe annegare, è proiettata in una rinnovata dimensione espressionistica nel dramma Draussen vor der Tür (Fuori davanti alla porta, Guanda, 1956) di Wolfgang Borchert. Ma l’opera che più di ogni altra consentì al lettore italiano di confrontare il proprio dolore storico e individuale con quello tedesco, ripercorrendo il tempo di guerra e la dura quotidianità del dopoguerra, fu la narrativa del cattolico renano Heinrich Böll, uno degli scrittori più noti e familiari nel nostro paese che comunque andrebbe oggi riproposto, dalla prima traduzione Der Zug war pünktlich (Il treno era in orario, Istituto di Propaganda libraria, 1958) a Haus ohne Hüter (Casa senza custode, Mondadori, 1957) e alle Ansichten eines Clowns(Opinioni di un clown, Mondadori, 1965).
Si è molto discusso dell’effettiva consistenza di un innesto del neorealismo italiano, arricchito dalla cinematografia di Rossellini, Zavattini e De Sica, nella cultura tedesca. Si è sostenuto che «i tedeschi, in fondo, hanno più ammirato che assimilato davvero il neorealismo», che «il dialogo degli scrittori italiani con la cultura tedesca in Germania fu più fitto che fertile», come attesta la presenza di giovani autori tedeschi nella rivista di Vittorini «Il Menabò», di cui Enzensberger curò, dopo la sua morte, il nono volume, o di scrittori italiani ad esempio sulla rivista «Akzente» o nei cataloghi di Suhrkamp e Wagenbach. Se il transfer del realismo critico e del neorealismo come catalizzatore della coscienza storica si rivela asimmetrico e non equilibrato nei due paesi, ciò è dovuto a ragioni storiche e politiche che avevano permesso alla letteratura italiana del dopoguerra di creare una tradizione di concreta e dolorosa rappresentazione della realtà, alimentata dai valori della Resistenza e della guerra di liberazione, conferendo compostezza e trasparenza ai contenuti nuovi, superando quel pessimismo nei confronti della storia che in molti tedeschi si traduceva in una “stanchezza e paura di parlare”, in una metafisica della crisi, cornice di una letteratura lemurica, catacombale come in Hermann Kasack, Hans Erich Nossack, Ernst Kreuder in cui gli orrori della guerra si proiettano in visioni spettrali di dannati.
La fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta segnano oltre che un’accentuazione dell’interscambio letterario fra Italia e il mondo tedesco, anche un’impronta significativa data dalla costituzione a Palermo del Gruppo 63, 34 scrittori e collaboratori del «Verri», rivista fondata da Luciano Anceschi nel 1956, che in polemica con la tradizione del neorealismo mimetico-naturalistico rivendicavano alla letteratura una sua eteronomia e una sua creatività in chiave sperimentale e avanguardistica. Emerge qui Franco Fortini, poeta, traduttore e intellettuale, figura centrale del transfer italo-tedesco. Pur con un modesto successo editoriale, la neoavanguardia del Gruppo 63 si presenta in Germania con i romanzi di Luigi Malerba Il serpente (Die Schlange, Suhrkamp, 1969), Salto mortale (Suhrkamp, 1971), testi di Giorgio Manganelli e di Edoardo Sanguineti, fra cui Il giuoco dell’oca (Gänsespiel, Suhrkamp, 1969).
Del resto il 1963 è un anno ancora più importante, perché il lettore tedesco può accostarsi all’opera di Carlo Emilio Gadda del quale escono la traduzione del frammento narrativo La cognizione del dolore (Die Erkenntnis des Schmerzes, Piper, 1963), con la prefazione di Enzensberger, e del romanzo Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana (Die grässliche Bescherung in der Via Merulana, Piper, 1963). In quello stesso anno esce in Germania la traduzione del romanzo, incompleto, Paolo il caldo (Paolo der Heissblütige, Walter) di Vitaliano Brancati. Nella postfazione la romanista svizzera Alice Vollenweider rilevava una continuità di profondi impulsi creativi per la letteratura italiana di autori di origine siciliana che dal verismo di Verga, passando per l’antinaturalismo di Pirandello, il realismo venato di simbolismo di Elio Vittorini con Conversazione in Sicilia (Gespräch in Sizilien, Walter, 1961) giungeva agli esiti diversi, ma complementari, del Gattopardo (Der Leopard, Piper, 1959) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nel frattempo nel 1959, anno in cui viene conferito il Nobel a Quasimodo che incentiva attenzione e ricezione della letteratura italiana in campo internazionale, escono in Germania due opere chiave e di svolta per i riflessi sulla ricezione da parte del lettore italiano: Die Blechtrommel di Günter Grass (Il tamburo di latta, Feltrinelli, 1962) e Mutmaßungen über Jakob di Uwe Johnson (Congetture su Jakob, Feltrinelli, 1961). Dall’eccentrica condizione del nano Oskar Matzerath, protagonista del Tamburo di latta, Grass ritma con un’epica umorale e fantasiosa 50 anni di storia tedesca fino alla società adenaueriana. Johnson ci introduce con la morte oscura di Jakob sui binari di una stazione ferroviaria nel terreno minato delle supposizioni, delle «approssimazioni operative portate quasi sul piano della scienza», come ebbe a dire Vittorini, che precludono l’accertamento di una verità sempre più occultata e occultabile nelle paludi del potere asfittico della DDR.
Il rinnovamento della letteratura italiana, la pluralità dei suoi indirizzi, la frequente combinazione di narrazione e atteggiamento critico, la cornice ideologica, sostenuta da forze politiche e valoriali, entro la quale si inserisce la forte ricezione di Brecht (il Teatro è pubblicato da Einaudi in 4 volumi fra il 1951 e il 1961) e di Thomas Mann (Opera omniapubblicata da Mondadori negli anni Cinquanta) e la conoscenza di Robert Musil (L’uomo senza qualità, Einaudi, 1957-58) rafforzano l’attenzione e la discussione di ambienti culturali tedeschi, in primis di Enzensberger con le riviste «Akzente» e «Kursbuch». E questo non poté che essere accolto favorevolmente da scrittori e intellettuali come Sanguineti e Umberto Eco, la cui Opera aperta esce in Germania da Suhrkamp nel 1973 (Das offene Kunstwerk), anche nella consapevolezza del venir meno da parte italiana del sospetto di una rimozione del passato e di una strategia della Vergessenheit.
l transfer fra gli anni Sessanta e Settanta, anni di grandi trasformazioni, tensioni sociali, aspirazioni in un contesto fortemente ideologizzato, sul piano internazionale cristallizzato in blocchi contrapposti, tormentato in Europa da altre tragedie (l’invasione dell’Ungheria, della Cecoslovacchia, la costruzione del Muro di Berlino) si arricchisce di nuovi scenari. In Germania si recepiscono tendenze, accostabili in certa misura alla Arbeiterdichtung della Gruppe 61, come avviene con il romanzo di Nanni Balestrini Vogliamo tutto (Wir wollen alles, Trikont, 1972), Memorie di una ladra (Memoiren einer Diebin, Ullstein, 1977) di Dacia Maraini, Padre padrone (Mein Vater, mein Herr!, Benziger, 1975) di Gavino Ledda, ma soprattutto, assimilando la concezione della letteratura come denuncia e impegno civile, con la diffusione delle opere di Leonardo Sciascia, a partire da Il giorno della civetta (Der Tag der Eule, Walter, 1964). Dall’altra parte si avvia in Italia un processo di scoperta e di discussione di quei percorsi oppositivi e alternativi che animano il quadro critico della letteratura tedesca. È il caso ancora di Enzensberger che nel volume di saggi Einzelheiten (Questioni di dettaglio, Feltrinelli, 1965) spiega, in un’orbita di dissenso ideologizzato, le leggi dello sfruttamento della coscienza e l’esercizio del potere. Le 30 poesie (Poesie per chi non legge poesia, Feltrinelli, 1964), tradotte da Franco fortini e Ruth Leiser, e il saggio Le aporie dell’Avanguardia, tradotto da Enrico Filippini su «Angelus Novus» (1964) rappresentano un contributo di grande rilievo per la cultura italiana.
In questa stagione dalle molte contraddizioni che caratterizzano la crescita economica, nel faticoso processo di democratizzazione del sistema politico e di un’effettiva purificazione dei centri di potere, nel ritardo dell’avviamento di una Vergangenheitsbewältigung, nella convivenza traumatica della divisione della Germania, la letteratura e la critica filosofica ‒ si pensi alla Scuola di Francoforte ‒ rispecchiano per densità e intensità questo quadro complesso, eterogeneo, comunque percorso ancora da venature utopiche. Non si tratta più soltanto della prefigurazione di un mondo nuovo con l’atto esistenziale e libertario di Andersch nel racconto Sansibar oder der letzte Grund (Zanzibar ovvero l’ultimo perché, Mondadori, 1959) o nel romanzo Die Rote (La Rossa, Mondadori, 1961), ambientato a Venezia, oppure della rievocazione utopica della grande Casciubia nel Tamburo di latta di Grass. La poetica del naufragio, del tempo concesso a ore nell’angoscia di una terza guerra mondiale, tempo dominato dal linguaggio della canaglia (Gaunersprache) si ribalta in Ingeborg Bachmann in avvincenti proiezioni utopiche come nel romanzo Malina o nelle Frankfurter Vorlesungen (1959-60) (Lezioni francofortesi, Adelphi, 1993):
‘Il popolo ha bisogno della poesia come del pane’, ha scritto una volta Simone Weil. (…) Poesia come pane? Questo pane dovrebbe scricchiolare fra i denti e risvegliare la fame, prima che la sazi. E questa poesia dovrà essere tagliente di potenza conoscitiva e amara di anelito per toccare il sonno degli uomini. (…) La realtà si incontra con un nuovo linguaggio là dove ha luogo uno scossone morale e conoscitivo» («Das Volk braucht Poesie wie das Brot (…) Poesie wie Brot? Dieses Brot müßte zwischen den Zähnen knirschen und den Hunger weiedererwecken, ehe es ihn stillt. Und diese Poesie wird scharf von Erkenntnis und bitter von Sehnsucht sein müssen, um an den Schlaf der Menschen rühren zu können. (…) Mit einer neuen Sprache wird der Wirklichkeit immer dort begegnet, wo ein moralischer, erkenntnishafter Ruck geschieht»).
Proprio a Ingeborg Bachmann, romana di adozione e scomparsa nella capitale nel 1973, dobbiamo forse il transfer più significativo fra le due culture. Le sue traduzioni della lirica di Ungaretti (Gedichte, Suhrkamp, 1961) costituiscono un modello di interferenza profonda fra due sistemi letterari, continuato da Pier Vittorio Tondelli nella sua prosa Un weekend postmoderno (Bompiani, 1990). Ma la cifra utopica sparsa qua e là si affievolisce man mano che si riduce la tensione ideologico-ideale animata da un impegno civile e politico. Nell’interscambio culturale fra Italia e Germania occorre tener conto di un’ottica doppia, a volte incrociata nei confronti della letteratura fino al 1989 della Repubblica Federale e della DDR, questa non di rado considerata con «sguardo critico-empatico» e promossa da case editrici quali Einaudi, e/o, Costa & Nolan con traduzioni di opere di Christa Wolf, Anna Seghers, Irmtraud Morgner, Volker Braun, Christoph Hein, Heiner Müller.
Con la riunificazione, nel mondo culturale italiano e nell’editoria si è seguita e recepita con interesse l’accentuata tendenza nella narrativa tedesca di presentare romanzi di ricostruzione e chiarificazione storica di snodi e traumi novecenteschi come Ein weites Feld (1995) (È una lunga storia, Einaudi, 1998) di Günter Grass, con l’ambizione di proporre il vero romanzo della Wiedervereinigung, e del quarantennio della divisione, come Der Turm (2008) (La torre, Bompiani, 2010) di Uwe Tellkamp o il recente Kruso(Del Vecchio, 2015) di Lutz Seiler. Ma nelle trasversalità e negli intrecci di una letteratura transnazionale, nella quale tuttavia convivono tendenze regionali centripete, alla domanda: “Was ist deutsch an der deutschen Kultur?” la risposta comunque non univoca è nello “Schreiben zwischen den Kulturen” con il conseguente superamento di delimitazioni nazionali nella direzione di una “interkulturelle Literatur”. Nella ricezione italiana della letteratura contemporanea dei paesi di lingua tedesca si stenta a cogliere quella che può essere definita una “erweiterte Literatur”, alimentata dall’estensione e dalla proiezione di culture di paesi soprattutto dell’est, della Turchia e del Medio Oriente con il contributo di decine di scrittori che hanno scelto il tedesco come lingua di scrittura letteraria (fra i quali Térezia Mora, Saša Stanišić, Feridun Zaimoğlu, Ilija Trojanov, Vladimir Kaminer) come diretta conseguenza di eventi tragici di anni recenti. Ogni transfer deve quindi prendere sempre più in considerazione lo spostamento di baricentri letterari con incroci e ibridazioni di temi e di tradizioni, rendendo riduttivo e semplicistico, almeno sul piano culturale, il dilemma posto da Thomas Mann dopo il secondo conflitto mondiale e riproposto da molti in questi mesi di un’Europa germanica o di una Germania europea. Una delle questioni più rilevanti consiste invece nello stabilire in che misura la multiculturalità attraverso il medium della lingua tedesca, assimilata, plasmata e rimodulata nei poetoletti e negli etnoletti incidono, nel confronto e nel contrasto, sulla lingua stessa nella sua varietà e processualità.
Al tempo stesso prevale nella letteratura contemporanea di lingua tedesca la rappresentazione della storia recente seguendo percorsi genealogici familiari. Negli itinerari della memoria praticati da autori di terza generazione (Tanja Langer, Marcel Beyer, Jens Sparschuh), sviluppati spesso nel versante della letteratura ebraico-tedesca e della Holocaustsliteratur, si cerca di venire a capo del destino tragico del Novecento di cui ci si sente stretti eredi. Ma sulle utopie spuntate sulle macerie della seconda guerra mondiale e di molte altre guerre recenti e in corso si affermano sempre più visioni distopiche come se nella simultaneità del presente fossero venute meno non solo la prefigurazione positiva di un futuro possibile ma anche la prospettiva e la proiezione in esso. Alle sempre più diffuse visioni apocalittiche di un pianeta non più in grado di sostenere l’umanità in un prossimo futuro si accompagna la percezione della perdita di un orizzonte futuribile come di recente ha scritto in un testo postumo Sebastiano Vassalli, noto al lettore tedesco per i romanzi Die Hexe von Novara (Heyne, 1995) e Der Schwan (Piper, 1999):
Abbiamo perso il futuro e abbiamo perso anche la direzione del futuro. La perdita del futuro è dentro di noi. (…) Viviamo in un mondo che fa sempre più fatica a guardare oltre il proprio presente; perfino in quelle attività umane, come la letteratura e le arti, di cui in passato si pensava che dovessero tendere al sublime, cioè a qualcosa di eterno.
Nel nostro tempo, in cui si è metabolizzato il post-ideologico occorrerebbe rimettere al centro della società globale la creatività, l’inventiva, una progettualità coraggiosa come antidoto alla stagnazione e a visioni miopemente pragmatiche, perseguendo l’obiettivo di una rappresentazione di un’umanità globalizzata. Se rivolgiamo comunque lo sguardo all’indietro, la memorialità come risposta all’oblianza aiuta nella letteratura a preservare una coscienza storica. In questo contesto il transfer culturale fra Italia e mondo tedesco mantiene una sua preziosa vitalità. Infatti alle disillusioni distopiche, che dall’immaginario della letteratura fantascientifica si riversano in una sempre più probabile e imminente realtà negativa, si contrappone ormai non più l’utopia, ma il richiamo al topos, come localizzazione di riferimento data dai classici come patrimonio di umanesimo. Di questo era già consapevole Ingeborg Bachmann che nella lezione Literatur als Utopie citava Goethe:
Ich sehe immer mehr, daß die Poesie ein Gemeingut der Menschheit ist und daß sie überall und zu allen Zeiten in Hunderten und aber Hunderten von Menschen hervortritt (…) Nationalliteratur will jetzt nicht viel sagen, und jeder muß jetzt dazu wirken, diese Epoche zu beschleunigen. (Vedo sempre più chiaramente che la poesia è un patrimonio comune dell’umanità intera, e che nasce in ogni luogo e in ogni tempo da centinaia e centinaia di esseri umani (…) Al giorno d’oggi letteratura nazionale non vuol dire molto, e ciascuno dovrà contribuire ad accelerare questa nuova epoca.)
Fabrizio Cambi germanista e traduttore è stato tra l'altro Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento membro del Consiglio direttivo dell’Ateneo Italo-Tedesco e Presidente dell’Istituto Italiano di Studi Germanici. Qui sopra abbiamo riproposto il testo dell’intervento tenuto dallo studioso a Trento per la Sommerschule “The Challenges of Transformation in Europa”.