Le storie dei neri americani repressi da 400 anni

{fa-info-circle } Artikel nur in Muttersprache - Article only in mother language.

Il presidente Biden alle prese in patria con un problema sociale ricorrente: il razzismo dei poliziotti.

L' omicidio di George Floyd, l'uomo che nel pomeriggio del 25 maggio è stato fermato e ucciso da due pattuglie che l'hanno immobilizzato a terra per 8 minuti e 46 secondi con un ginocchio premuto sul  collo. è già  raccontata da Wikipedia, la grande enciclopedia online: I disordini che ne sono seguiti hanno richiamato l'attenzione globale sulle condizioni di vita degli afroamericani degli Stati Uniti.

maison de gorééNell’isola di Gorée c’è una porta aperta sull’oceano che fa risplendere l’azzurro del mare, è in fondo a un corridoio che si apre fra due scalinate curvilinee e convergenti. Siamo un paio di miglia al largo di Dakar, Sénégal, l’edificio proiettato sull’Atlantico porta un nome evocativo e sinistro, Casa degli schiavi. Al tempo della tratta da qui partivano a milioni, diretti verso le piantagioni americane, ma non tutti vi arrivavano, il tasso di mortalità sulle navi era altissimo. Alcuni finivano la loro avventura ancor prima dell’imbarco: se apparivano in salute precaria, duramente provati dall’interminabile odissea che dall’interno del continente li aveva trascinati sull’isola, venivano scaraventati in mare. Malati, dunque inadatti al lavoro, dunque privi di valore commerciale.

Qualcuno contesta sulla base di controverse ricerche la centralità che si attribuisce a Gorée e le dimensioni del traffico che vi faceva capo, in ogni caso la potenza simbolica del luogo è tale che l’Unesco l’ha inserito fra i beni tutelati come patrimonio dell’umanità. E così il monumento che ricorda le vittime dello schiavismo è meta di un intenso turismo della memoria. Secondo la leggenda si aggira fra le bougainvillee che colorano l’isola uno spirito che sonda i pensieri dei visitatori, pronto a bersagliare con ogni sorta di guai chi non si sente partecipe di quel dramma umano e civile.

La tratta, fra le modalità della migrazione forzata certamente la più violenta, occupa tre secoli di storia, dagli inizi del Cinquecento al primo Ottocento.
Inghilterra, Olanda, Francia, Portogallo e Spagna i paesi più coinvolti. Le stime sono incerte, ma si ritiene che abbiano attraversato l’Atlantico fra i nove e i quindici milioni di schiavi, razziati nell’Africa centro-occidentale e distribuiti in tutto il continente americano.
Solo nel Settecento quel destino è toccato a sei milioni di persone, un terzo delle quali trasportate da navi britanniche.
Bisogna poi considerare una rotta orientale più breve ma altrettanto frequentata di cui poco si parla: un’infinità di schiavi, qualcuno parla addirittura di diciotto milioni, strappati dal cuore dell’Africa e venduti in Turchia e nei paesi dell’Oriente arabo e persiano.
Incalcolabile il numero dei morti sia nel capitolo atlantico, sia in quello mediorientale, ma certo siamo sull’ordine di grandezza dei molti milioni.
Morivano nelle fasi della cattura, organizzata da trafficanti locali che poi rivendevano il «bottino» ai negrieri, morivano più tardi nella lunga marcia verso i porti d’imbarco, incatenati e gravati dal peso delle merci che erano obbligati a trasportare.
 
Morivano durante la traversata, che a volte si protraeva per mesi e mesi: soltanto verso la fine del Settecento il progresso delle tecniche navali ridusse la durata del viaggio fino a sette-sei settimane.
A volte gli schiavi si ribellavano e cadevano sotto i colpi dell’equipaggio, composto da alcune decine di uomini pesantemente armati, che oltre a eseguire le manovre di navigazione tenevano sotto controllo quella instabile mercanzia umana.
Stavano incatenati nelle stive, a loro disposizione poco cibo e pochissima acqua, e sempre meno quando la traversata si prolungava.
 
C’era chi non poteva resistere ai disagi e all’umiliazione e riusciva a togliersi la vita.
Per una causa o per l’altra, si calcola che un quindici per cento degli uomini imbarcati non sia arrivato a destinazione. Quelli che ce la facevano, e venivano venduti ai piantatori, non sempre si rassegnavano al dominio del padrone. Frequenti le rivolte, spietatamente represse.
Non a caso si parla di «olocausto nero» o di maafa, una parola in lingua swahili dal significato originario di tragedia, disastro.
 
Quel traffico di esseri umani assicurava lauti profitti, anche perché le navi negriere non viaggiavano mai vuote.
Partivano dall’Europa cariche di stoffe, armi, chincaglierie che venivano vendute in Africa o scambiate per acquistare gli schiavi dai capi locali, poi venivano stipati a bordo gli uomini in catene e dopo che il loro carico umano era stato depositato in America le navi tornavano in Europa portando metalli e spezie.
Affari d’oro dunque, come quelli dei piantatori che potevano contare su una manodopera così a buon mercato e capace di perpetuarsi generando altri schiavi.
 
Il fenomeno finirà con lo sconvolgere la composizione etnica in molte parti del continente: in alcuni paesi dell’America Centrale la maggioranza è di origine africana. Negli Stati Uniti vivono oltre quaranta milioni di afroamericani, circa il tredici per cento della popolazione.
La presenza degli schiavi e dei loro discendenti ha prodotto, soprattutto in Brasile e nel resto dell’America Latina, un’assortita presenza di sanguemisto: mulatti frutto dell’incrocio con europei, zambos nati dall’incontro con le tribù degli indios, sempre pronti ad accogliere africani in fuga dalla schiavitù.

bansky floydBanksy contro il razzismo: "questo è un problema dei bianchi". Il famoso artista interviene a modo suo sul caso George Floyd con una nuova opera e le parole di un post su Instagram.

Bisognerà aspettare la fine del Settecento, il secolo d’oro della tratta ma anche del pensiero illuministico, perché l’Europa cominci a rendersi conto dell’obbrobrio di questa pratica, incompatibile con la religione nascente dei diritti umani.
Risale al 1793 il voto della Convenzione, l’assemblea scaturita dalla rivoluzione francese, che elimina la schiavitù nelle colonie e mette al bando la tratta. Ma c’è una lobby creola che non è d’accordo, visto che fonda la sua prosperità proprio sulle coltivazioni affidate agli schiavi.
 
E così quando in seguito alla pace di Amiens l’Inghilterra restituisce alla Francia le isole di Réunion e Martinique, dove durante l’occupazione britannica la schiavitù è stata conservata, il primo console Bonaparte, desideroso di conquistare l’appoggio della borghesia, lascia le cose come stanno.
Anzi poco dopo reintroduce la schiavitù anche nell’isola di Guadeloupe, mentre la prospettiva della controriforma napoleonica scatena una cruenta rivolta nera a Saint-Domingue, la futura Haiti.
Soltanto durante i Cento giorni l’imperatore abolirà definitivamente questa aberrante condizione umana. Ma pochi giorni dopo la disfatta di Waterloo renderà vano il tardivo ripensamento.
 
Intanto l’abolizionismo si è fatto strada anche in Inghilterra, che pure è il paese che da quei traffici ha tratto il maggior profitto.
Londra elimina questa pratica nel 1833 e negli anni successivi la Royal Navy incrocia sulle rotte atlantiche sbarrando il passo alle navi negriere. Quindici anni più tardi, in pieno Quarantotto, la Francia riscopre la generosa intuizione dei rivoluzionari di mezzo secolo prima e decreta a sua volta la fine della schiavitù.
L’America resta indietro, è vero che non c’è più il copioso afflusso dall’Africa ma la grande migrazione ha determinato un fatto nuovo: gli schiavi arrivati in passato o nati successivamente nelle piantagioni sono ormai moltitudine, e sono considerati un fattore economico primario.
 
Nel Settecento illuminista ecco le prime pressioni per adeguare la situazione ai tempi nuovi.
Un esempio: chiede libertà per tutti un americano d’elezione, il marchese Gilbert de La Fayette, il mitico generale francese che ha dato uno storico contributo alla guerra d’indipendenza degli Stati Uniti.
Aristocratico ma imbevuto dei principi rivoluzionari, La Fayette non capisce come i suoi amici americani, a cominciare da George Washington che è un proprietario terriero con tanto di schiavi, possano tollerare una simile lesione dei diritti dell’uomo.
 
Per convincerli a liberare i lavoratori acquista una piantagione in Guyana: vuol dimostrare che si può trarre profitto dalla terra anche facendola coltivare da uomini liberi contrattualmente salariati.
Ma gli americani da quell’orecchio ancora non ci sentono: bisognerà aspettare la metà del secolo successivo perché la rivalità economica e culturale fra il Nord industriale e il Sud agrario sfociata nella guerra civile, ma soprattutto la modernità che incalza, facciano scattare il meccanismo dell’emancipazione.
 
Di quella condizione ormai archiviata restano una vena perdurante di razzismo, che culmina nelle lugubri fiaccolate del Ku Klux Klan, e gli indicatori sociali al di sotto della media fra gli afroamericani.
Un secolo e mezzo dopo Lincoln questa minoranza, figlia della migrazione forzata, è ancora in condizioni di svantaggio.
Eppure un afroamericano, Barack Obama, è stato per otto anni presidente degli Stati Uniti.
È vero che Obama, figlio di un’americana bianca e di un cittadino del Kenya, non è discendente di schiavi: ma il segnale lanciato dalla sua elezione alla Casa Bianca resta ugualmente un evento di grande portata storica.
 
Pin It
Alfredo Venturi
É nato a Bologna, vive in Toscana. Laurea in Scienze politiche. Giornalista (il Resto del Carlino, La Stampa, Corriere della Sera) attivo in Italia e all'estero. Ha trascorso in Germania il decennio che comprende la riunificazione. Editorialista del settimanale Azione di Lugano. É autore di numerosi saggi di ricerca e divulgazione storica.
© Berlin89 2018 - 2019 - 2020 - 2021 - 2022 - 2023 - 2024

Berlin89 magazine del Centro Studi Berlin89

Testata giornalistica registrata
al Tribunale civile di Venezia.
Autorizzazione n.8 in data 30/08/2018
Direttore Responsabile Vincenzo Maddaloni
Responsabile Trattamento Dati Paolo Molina

 

 

Log in



Italia Sede

via privata Perugia, 10 - 20122 Milano (MI)
Tel:  +39 02 77 33 17 96
Fax: +39 02 76 39 85 89

Deutschland Repräsentanz

Federiciastraβe 12 - 14050 Berlin (Charlottenburg)
Tel:  +49 30 8 83 85 16
Fax: +49 30 89 09 54 31