L'arte italiana di governare nel torbido

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Chi non si vaccina non riceve una convocazione obbligatoria a un centro vaccinale con un crescendo stabilito per legge di pressioni dal forte e amaro sapore istituzionale, ma viene tenuto fuori anche dal proprio posto di lavoro. Si è creato così il capo espiatoio con il quale il governo può attraversare i prossimi mesi di prevedibili fallimenti nella delirante e devastante ricerca dello Zero contagi.


Se «non novaxti vaccini, ti ammali, muori. Oppure fai morire: non ti vaccini, ti ammali, contagi, qualcuno muore», ha detto Mario Draghi. Dunque per lui chi non si vaccina non è semplicemente un untore, ma un assassino.

Ora, secondo ogni logica, se il capo dell’esecutivo ha notizia che ci siano degli assassini in giro, deve ordinare ai birri di metterli in ceppi. Fuori dalla metafora odiosa a cui il primo ministro ci costringe, è chiaro che a un tale livello di allarme – che i governanti vi credano o meno non è dirimente – dovrebbe conseguire un obbligo vaccinale generalizzato, con esenzioni esclusivamente di ordine medico. Le note che seguono sono per spiegarmi perché ciò non avvenga.

Vorrei però in premessa fosse chiaro, anche a chi ha il vizio di leggere in fretta o di travisare a favor di social, che non sto auspicando l’obbligo vaccinale. In generale non lo auspicherei in nessun caso, e anzi ritengo siano le forzature in tal senso a generare diffidenza e sospetti. Quello dell’obbligatorietà rimane però un argomento sensato da dibattere; ciò che invece è sciocco negare è che esista uno specifico dei vaccini, perché i loro eventuali effetti collaterali colpiscono una persona che non ha contratto la malattia, e che magari non l’avrebbe mai contratta in vita sua. Ogni paragone da twitter con i farmaci – «Anche i farmaci che prendi potrebbero avere effetti a lungo termine che non conosci!» – è destituito di ogni fondamento, perché i farmaci curano, bene o male, e spesso con effetti collaterali, patologie già insorte; quindi il bilancio tra costi e benefici di un farmaco si fa sul corpo della stessa persona.

Nel caso dei vaccini il bilancio si deve fare innanzitutto sull’ipotesi, non sulla certezza, che il soggetto contragga la malattia in forma grave, ma tale bilancio deve potersi fare anche sui corpi di persone diverse, perché qualcuno potrebbe evitare la malattia grazie al vaccino, ma qualcun altro potrebbe essere danneggiato dal vaccino stesso.

È evidente che dal punto di vista etico sono due questioni da trattare in modo separato, e quella dei vaccini è assai più spinosa. Ma sarebbe illusorio aspettarsi una discussione di livello anche solo decente in un contesto sociale e politico in cui si paragona con leggerezza, e ripetutamente, una pandemia (cioè una malattia) a una guerra (cioè all’atto deliberato di un governo), con tanto di raffronti sul numero dei morti, in cui alla cretineria etica si aggiungono i trucchetti per far dire ai numeri ciò che si vuole i numeri dicano.

Ancora più odioso il paragone, che ho visto condividere sui social anche da persone della fu “sinistra antagonista”, con gli estintori e il gas che contengono. In particolare ho in mente una vignetta in cui il protagonista, implicitamente un “novax”, è circondato dalle fiamme ma esita ad attivare l’estintore chiedendosi se il contenuto avrà effetti a lungo termine sulla sua salute.

La condivisione divertita di questa bestialità implica che l’epidemia in corso sia un incendio senza scampo, e quindi veicola una visione caricaturale quanto quella del presidente del consiglio («Muori… fai morire»); in subordine, implica che di norma non vengano fatte valutazioni tecniche e sanitarie sui gas estinguenti e sulla loro conservazione. Cosa che invece avviene, sia in fase di autorizzazione da parte dell’Unione Europea e degli stati, sia in fase di verifica puntuale da parte dei vigili del fuoco. Quindi l’interrogativo sulla sostanza estinguente è assolutamente legittimo, anche se alla fine ritengo che l’animaletto antropomorfo della vignetta finirà per usare la bombola per salvare la propria vita da un pericolo imminente, usandolo quindi come farmaco – salvo me stesso da un pericolo presente, anche correndo rischi futuri – e non come vaccino, che come detto sopra apre questioni più complesse.

Ovviamente c’è un modo brutale per sciogliere i nodi etici, ed è quello dell’organicismo: se si considera la società come corpo unitario, ciò che diventa determinante è che il potere sappia narrare e imporre il proprio progetto di salvare la società, e a fronte di questa (presunta) salvezza ogni sacrificio può essere chiesto agli individui. Per la sinistra marxista questa via dovrebbe essere quantomeno problematica, visto che già Marx avvertiva che salvare la società significa salvare il suo assetto di classe; ma in tanti sono pronti, mi pare, ad aderire al nuovo organicismo dandogli nuovi nomi, morbidi e accattivanti.

Fatte queste premesse, torno al punto: se la situazione è quella indicata dal governo, e se i vaccini sono la soluzione (sappiamo che tutto ciò non è vero su molti piani, ma continuiamo als ob), cosa impedisce la loro obbligatorietà? Tre sono le risposte date dai più, e le ritengo tutte inadeguate, prevalentemente perché sbagliano la lettura di contesto.

«La costituzione impedisce l’obbligo» (come impedisce il Daspo)

Prima risposta: non viene introdotto un obbligo perché esso non sarebbe costituzionalmente sostenibile. Questa è la posizione, per esempio, di un ottimo documento pubblicato sul sito della rivista di Magistratura Democratica, intitolato «Sul dovere costituzionale e comunitario di disapplicazione del cd. decreto green pass». Il testo parte dalle debolezze fattuali che stanno sullo sfondo del GP, ovvero che né vaccinazione né tampone garantiscono certezza di non contagiosità, e arriva ovviamente, come annunciato dal titolo, al punto focale: «soltanto una legge che imponga la vaccinazione obbligatoria […] potrebbe costituire valido fondamento giuridico al Green pass di tipo prescrittivo»; ma l’obbligatorietà del vaccino «sarebbe comunque costituzionalmente discutibile, o comunque necessaria di seri e rigorosi approfondimenti, non solo in virtù della natura sperimentale dei vaccini utilizzati, ma anche dalla mancanza di prova circa la sua capacità di limitare il contagio (effetto sull’infezione e non solo sulla malattia)».

Ne deriva quindi, interpreto in modo atecnico quanto leggo, che col GP si aggira l’obbligo di legiferare direttamente in merito alla compressione di diritti costituzionalmente garantiti (e nella sua versione settembrina si impedirà anche di recarsi al lavoro ad alcune categorie di lavoratori), imponendo in modo surrettizio un obbligo vaccinale de facto.

Ora: è tutto vero e limpido; e fa pietà vedere i giornali “borghesi” assumere posizioni diverse da questa, quando non perdono occasione per mettere in piedi stucchevoli panegirici per festeggiare la costituzione. Ma è, come dicevo, la lettura di contesto a essere sbagliata, ovvero quella che vede sussistere il diritto positivo e una consolidata gerarchia delle fonti, e ne analizza il vulnus, che nella fattispecie è il GP.

La verità è che questa lettura è spaventosamente in ritardo, mentre lo stile di governo attualmente (e da tempo) in costruzione – e che in questa pandemia ha concluso l’infanzia ed è entrato nella sua adolescenza, ovvero nel tempo della crescita tumultuosa e della foia incontenibile – non viene neppure sfiorato da queste obiezioni, e anzi riceve un piacevole solletico dalle critiche vintage, che ricordano il salotto di nonna. In questo stile di governo sono proprio le questioni che più implicano e plasmano la nostra vita materiale a essere decise da uno sfuggente complesso capitalista-statuale e non nell’ambito del diritto positivo.

La forza coercitiva del complesso capitalista-statuale ovviamente aumenta più si è socialmente deboli ed esposti al suo arbitrio. Se sei povero e non hai un biglietto vieni espulso dalla stazione ferroviaria in cui trovavi rifugio la notte. Lo ha deciso una legge? No: lo ha deciso il gestore privato-pubblico delle stazioni. Ti viene poi impedito di chiedere l’elemosina in centro tramite un Daspo, una “messa al bando” da determinate zone. L’ha deciso la legge? Sì, ma in modo torbido. Nel 2008 un decreto del ministro Maroni dava poteri smisurati in tal senso ai sindaci; questi poteri sono stati dichiarati illegittimi nel 2011 ma infine sono stati riaffermati da Minniti nel 2017, come se la sentenza 115/2011 della corte costituzionale fosse il consiglio di uno zia troppo tenera di cuore. Lo sentite il profumo di anice delle caramelle di nonna?

In questa stessa filiera di decreti “sicurezza” (Minniti, Salvini e la riforma del 2020) troviamo ogni tipo di forzatura giuridica possibile e immaginabile, che vede l’applicazione del Daspo verso persone che siano state solo denunciate per certi reati, e non ancora riconosciute colpevoli; la determinazione arbitraria delle «immediate vicinanze» dei luogo interdetto, lasciata alle forze di polizia, e altre perle quali la trasformazione delle violazioni delle misure amministrative in reati, utilmente riassunte daRossella Selmini.

Gli esempi dello sfaldamento del diritto positivo sono potenzialmente infiniti, toccano persino i cittadini perfettamente integrati, ed eccedono persino i provvedimenti giustificati da questa o quella emergenzaAvere lo SPID è formalmente obbligatorio, per esempio? C’è stato un dibattito politico attorno all’introduzione coercitiva dell’identità digitale per ognuno e ognuna di noi, è stato valutato il suo rapporto di rischi e benefici, sono state valutate le ampie possibilità di discriminazione che seguono una tale decisione? No, perché tale decisione non è mai stata assunta: non è obbligatorio avere lo SPID, ma lo SPID è obbligatorio per accedere a servizi indispensabili della pubblica amministrazione, cioè per sopravvivere. Vi ricorda qualcosa? (Anche lo SPID, si noti, è un ibrido pubblico-privato).

Un altro esempio particolarmente gustoso di pervertimento dei fondamenti del diritto operato dallo stato, e che tocca chiunque, è quello del «patto formativo» fatto firmare ai genitori all’atto dell’iscrizione dei figli a una scuola. Esso non è in alcun modo un «patto» ma un documento indispensabile alle pratiche, su cui i genitori non hanno nulla da poter eccepire: o firmano o l’iscrizione non è perfezionata (e parliamo di scuole dell’obbligo). Se ricordate la vicenda delle «treccine blu» di Scampia, la linea di difesa dell’allucinante decisione della preside di sospendere il tredicenne per la sua capigliatura si fondava, sui social e sui giornali, proprio sull’avvenuta sottoscrizione del patto formativo».

Di fronte a questo livello di mistificazione operato dal potere, anche in un luogo delicato come le scuole, le scelte sono due: o indignarsi perché nei programmi è prevista un’«educazione civica» che con tutta evidenza non si rispetta neppure nelle sue istanze più elementari, oppure prendere atto che le strutture del diritto per come ci sono state tramandate non esistono più, che il contesto è irreversibilmente mutato.

«Non vogliono sborsare i soldi»

La seconda tipica risposta alla domanda «perché non viene introdotto un obbligo vaccinale?» suona più o meno così: perché facendo firmare la “liberatoria” e fingendo che si tratti di una libera scelta lo stato non rimborserà in denaro chi subisce danni dal vaccino. Il già citato documento Sul dovere costituzionale e comunitario…” ipotizza che

«non sia affatto scontata la corresponsione di un indennizzo […] ai sensi della legge 210/92 posto che ad oggi è sempre stato necessario un intervento ad hoc della Corte costituzionale per estendere la vigenza della legge succitata di volta in volta anche alle vaccinazioni non obbligatorie ma solo raccomandate. Ne deriverebbe quindi un paradosso insuperabile giacché il danneggiato da farmaco sperimentale, per di più caldeggiato al punto da costituire discriminante per l’esercizio di libertà fondamentali, e quindi surrettiziamente obbligatorio, godrebbe di trattamento deteriore rispetto al danneggiato da un qualunque vaccino raccomandato per il quale la Corte costituzionale sia già intervenuta […]»

Nonostante la compromessa situazione di legalità costituzionale di cui sopra, credo sia assai improbabile non vengano estesi gli indennizzi a questa vaccinazione, e questo lo sa anche il governo. Non sborsare i soldi poi non mi sembra l’istanza fondamentale, in questa fase di denaro dall’elicottero. Credo prevalga, anche qui, la scelta di/ stile di governo.

«Volevano evitare il pandemonio»

La terza spiegazione della scelta governativa sul GP è quella dell’evitare «che succeda un pandemonio». Essa mi pare poco sensata se applicata alle piazze: eventuali piazze contro l’obbligo vaccinale non sarebbero state molto diverse per dimensioni e combattività da quelle che si sono viste contro il GP. Inoltre, nessun governo sarebbe così scemo da introdurre un obbligo generalizzato e improvviso: esso, proprio come sta accadendo per il GP, sarebbe stato istituito per categorie e passaggi successivi sempre più allargati, creando un piano reso scivoloso dal principio della eguaglianza regressiva tanto amato dai governi degli ultimi decenni.

Un esempio vistoso di questo principio è quello dell’innalzamento dell’età pensionabile delle donne “per eguaglianza rispetto a quella degli uomini”. Contro provvedimenti complessi e subdoli come quelli assunti con il presente stile di governo è comunque difficile inventare una piazza da un giorno all’altro; l’auto-dissoluzione della “sinistra antagonista” ha fatto il resto.

Circola anche l’ipotesi che il «pandemonio» sarebbe scoppiato con la Lega, in caso di introduzione dell’obbligo vaccinale. Stento a credervi perché anche in quel caso, come sul GP la Lega si è intestata la “dirimente” esclusione dei ristoranti degli alberghi dall’obbligo di pass, anche per l’obbligo vaccinale avrebbe creato un finto fronte di resistenza che Draghi le avrebbe concesso, e tutto sarebbe finito lì.

Punire fuori dai contesti istituzionali

Due sono invece le ipotesi che propongo sul perché l’obbligo vaccinale sia stato introdotto in modo subdolo tramite il GP.

La prima è già chiaramente emersa da quanto detto: lo stile di governo presente agisce nel torbido. Evita la contrapposizione netta ma costruisce e modella premi e punizioni in modo frastagliato, apparentemente individualizzato ma in realtà algoritmico (come lo sono i social). Il tema del “credito sociale” e della “patente a punti” – non quella di guida, ma le diversificate patenti di cittadinanza che vanno emergendo – è già stato evocato nella discussione in calce al primo post sul GP.

I giornali sono stati abbagliati dal fatto che Draghi non abbia profili social, ma la verità è che in questa occasione il governo ha dimostrato di agire in modo compiutamente social. I renitenti al vaccino non-obbligatorio sono puniti prima di tutto dal disprezzo social, ma anche quando sono puniti dallo stato (puniti per non aver fatto una cosa facoltativa) questa punizione viene comminata in modo corrispondente alle fantasie oscene dei social.

Chi non si vaccina non riceve una convocazione obbligatoria a un centro vaccinale e un crescendo stabilito per legge di pressioni dal forte e amaro sapore istituzionale, ma viene tenuto fuori – anche dal proprio posto di lavoro – a causa del semaforo rosso emesso dalla app incaricata di interpretare la validità di un QR code, vedendosi la strada sbarrata non da un agente di PS ma da una guardia privata, molto di frequente privata anche nel caso si tratti della portineria di un ente pubblico. Si configura così una pena e una condanna che si svolge totalmente al di fuori dei contesti istituzionalmente preposti, delle loro procedure odiose ma certamente più garantiste di così, in una messa in scena ispirata al peggiore giustizialismo da social. Questo sistema, è quasi ozioso farlo notare, è modulare ed espandibile a piacimento, ben oltre la durata della pandemia.

Il bacino dei nemici pubblici non deve mai rimanere a secco

La seconda spiegazione “alternativa” che propongo è strettamente legata alla prima e al bacino di consenso social.

Un obbligo vaccinale vero e proprio avrebbe creato semplicemente delle persone in situazione di illegalità, che si sarebbero trovate quindi in uno stato definito dal diritto positivo, con tanto di sanzioni in chiaro, con minimi e massimi edittali eccetera. L’obbligo avrebbe recato con sé un’intrinseca gravità, quella resa dal motto implicito: lo stato esige di fare un’azione sul tuo corpo per un bene superiore. Un approccio di questo tipo non è facilmente sfumabile, né replicabile a piacimento domani e dopodomani per la prossima emergenza. Inoltre a un certo punto, passata la data stabilita per ottemperare all’obbligo, il bacino degli illegali si sarebbe staticizzato e i telegiornali avrebbero diffuso le cifre dei non vaccinati. La questione avrebbe perso dinamicità, interesse; alla fine sui social si sarebbe solo potuto applaudire le operazioni di polizia, ma più di qualcuno, che oggi magari sostiene acriticamente il GP, forse si sarebbe sentito a disagio nel ruolo di fan delle divise, e sarebbero cominciate le defezioni dalla canea urlante.

Al contrario la scelta di usare il GP come strumento di ricatto lascia la questione perennemente aperta, anche per l’illusoria porta-di-servizio dei tamponi – ovviamente è pura fantasia per un insegnante o equiparato farsi un tampone ogni due giorni – e quindi il bacino dei nemici pubblici rimane mobile, indefinito, magari calante a ondate successive ma senza una data di scadenza precisa, dunque c’è tanta ciccia da social da rosolare a fuoco lento, per alimentare gli hater di regime e la costruzione telematica del consenso. Creando così il capro espiatorio da passeggio perfetto per attraversare i prossimi mesi di prevedibili fallimenti nella delirante e devastante ricerca dello Zero contagi.


wolf bukowski 2Wolf Bukowski scrive su Giap, Jacobin Italia e Internazionale.
È autore per Alegre di La danza delle mozzarelle: Slow Food, Eataly Coop e la loro narrazione (2015), La santa crociata del porco (2017) e La buona educazione degli oppressi: piccola storia del decoro (2019).
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