L'incommensurabile valore della consolazione
Perchè in Italia c'è un’infondata diffidenza nei confronti delle cure palliative, identificate erroneamente con l’Eutanasia? Chiariamo innanzitutto i due concetti.
Le cure palliative, spesso associate dall’immaginario collettivo ad uno stigma che riduce la speranza, sono incentrate sul concetto del caring “prendersi cura” piuttosto che del curing “curare” come l’etimologia della parola suggerisce: palliativo deriva dal Latino palliare “coprire con il pallio, il mantello” ad indicare il profondo senso di accudimento e protezione che le stesse offrono.
L’eutanasia si configura invece come la richiesta che un soggetto fa ad un terzo (il medico) per farsi aiutare a morire ritenendo la propria vita non più degna di essere vissuta.
La rete delle cure palliative prevede un’ampia varietà di ambiti: assistenza domiciliare, assistenza in strutture ospedaliere e day hospital e assistenza in strutture residenziali dedicate quali hospice.
Quest’ultimo termine è spesso impiegato con una connotazione negativa per indicare un luogo senza ritorno al quale si accede in fase avanzata o avanzatissima di malattia.
In realtà, il ricovero in hospice risulta necessario quando, a causa della complessità della gestione del paziente (complessità clinica, psicologica, gestionale e organizzativa), mancano transitoriamente o definitivamente le condizioni per l’assistenza dello stesso a domicilio.
Gravità clinica del paziente e ridotta aspettativa di vita, spesso non superiore ai sei mesi, non costituiscono pertanto il requisito prioritario per l’accesso in tale struttura.
Per la loro componente fortemente umana e relazionale, le cure palliative contribuiscono a rendere il paziente consapevole della propria malattia e dell’evolversi della stessa trasmettendo, più che la prognosi nei numeri e nei tempi, quel senso del limite che, anche se non accettato del tutto, può migliorare la qualità di vita dell’assistito.
La buona cura si configura nella medicina palliativa come una presa in carico totale del paziente incentrata soprattutto sul rispetto dell’autonomia, della dignità e sulla valutazione della qualità di vita dello stesso.
Le cure palliative offrono assistenza medica, spirituale e psicologica sia al paziente affetto da malattia terminale che alla famiglia dello stesso.
L’espressione “To cure if possible, always to care” costituisce il principio fondamentale che muove i professionisti sanitari di questo settore, i quali, oltre ad alleviare il dolore fisico, dimostrano il proprio esserci anche solo con una silenziosa presenza nelle situazioni in cui è difficile trovare parole di consolazione e conforto per la persona morente e i suoi familiari.
Per essere efficaci e non ridursi a sola terapia del dolore, tali cure devono essere iniziate nel momento in cui la malattia diventa metastatica e inguaribile e inserite pertanto in un percorso di pianificazione delle cure così da creare quell’alleanza medico-paziente che consente a quest’ultimo di affidarsi al professionista sanitario ed essere “condotto per mano” nel percorso di fine vita.
Pratica eutanasica e cure palliative differiscono dunque per finalità: mentre l’eutanasia è un percorso che si conclude con la cessazione di una vita non più accettabile, le cure palliative hanno come obiettivo primario quello di alleviare il dolore che mai corrisponde al fatto di porre fine alla vita, anche nel caso della sedazione palliativa profonda.
La medicina palliativa mira in primo luogo a “sollevare” il paziente dal dolore che può configurarsi come “fisico” derivato dall’aggravarsi della malattia, “psicologico” ed “emozionale” quale ansia per la separazione dai propri cari e per l’incertezza circa il proprio futuro, “sociale” dettato da un maggior interesse verso sé stesso con un’angoscia sempre più crescente di essere diventato gravoso per gli altri e “spirituale” che porta la persona affetta da malattia a porsi interrogativi sul perché della malattia stessa e sul senso della vita e della morte.
Per la loro necessaria componente umana e relazionale, le cure palliative promuovono quella dimensione olistica del curare (curing) e del prendersi cura (caring) che identifica il paziente non con la sua malattia ma come un’unità psicofisica nella quale tanto la mente quanto il corpo devono trovarsi in perfetta salute e armonia.
Elemento imprescindibile alla relazione di cura è il rispetto della volontà dell’assistito da parte del medico, anche in una scelta tanto sofferta e difficoltosa come quella dell’eutanasia.
Lo sviluppo della tecnica sta allontanando il professionista sanitario dal paziente inteso quale persona con una propria storia personale alla base. Uno studio sulla consolazione effettuato in trenta hospices italiani ha evidenziato come tale atto consenta di creare un profondo momento di condivisione con il paziente e i familiari e come la fiducia costituisca la colonna portante nella relazione di alleanza terapeutica tra il professionista sanitario e l'assistito.
Proprio perché il prendersi cura risulta molto più complesso e ricco della cura stessa in quanto varia da persona a persona e non può essere codificato in regole e protocolli, la medicina futura deve recuperare l’antico legame con la filosofia che insegna a riflettere sul senso della vita e della morte e investire maggiormente nella formazione “umanistica” dei caregivers.
Elena Montaguti, laureata magistrale in Filologia e tradizione classica all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, nel 2019 ha concluso il dottorato di ricerca in Medicina clinica e sperimentale e Medical Humanities all’Università degli Studi dell’Insubria. Ha compiuto diverse esperienze di studio all’estero, in particolare in Germania (Heidelberg e Monaco di Baviera) e in Svizzera (Basilea). Ha collaborato e collabora tuttora con un’Università svizzera in Ticino. Ha scritto: "La «buona morte». Analisi del profilo storico e ruolo delle cure palliative nell'accompagnamento di fine vita".