Il tempo di morire
Cosa dovrebbe fare la medicina quando non può salvare la vita? Lasciar andare.
Sono partiti venerdì 11 luglio i referendum days per l’Eutanasia Legale con l'obiettivo di raggiungere le 500 mila firme entro il 30 settembre.La battaglia per l’eutanasia legale si è iniziata 37 anni fa. Quasi quattro decenni tra proposte di legge, sentenze, appelli che il Parlamento ha lasciato cadere nel vuoto, testi depositati per togliere (anziché dare) libertà ai malati terminali. A mantenere vivo il dibattito ci sono volute le storie di sofferenza e la disobbedienza civile.
C'è anche questo dietro la scelta del Centro Studi Berlin89 di riproporre t'articolo di Atul Gawande chirurgo e giornalista statunitense, nel quale si affronta il tema della comunicazione fra medico e malato terminale, fra quest’ultimo e i suoi familiari. Con annotazioni toccanti. Può accadere che una diagnosi infausta esponga una persona alla prova di quanto sia preparata alla battaglia per la vittoria sulla malattia; ma potrebbe essere anche un’occasione irripetibile per riflettere su se stessa e per staccarsi in piena consapevolezza dai propri cari. Ma quale comunicazione usare? E fino a che punto è valido un accanimento terapeutico che macera il corpo e toglie coscienza di sé?
ara Thomas Monopoli aspettava il primo figlio quando i medici capirono che sarebbe morta. Tutto era cominciato con una brutta tosse e un dolore alla schiena. Poi una radiografia toracica evidenziò che il suo polmone sinistro era collassato e che aveva il petto pieno di liquido. Con un lungo ago ne prelevarono un campione e lo mandarono ad analizzare. Non era un’infezione, come tutti pensavano, ma un tumore ai polmoni, e si era esteso fino ai margini della parete toracica. Sara era alla trentanovesima settimana di gravidanza, e l’ostetrica che aveva richiesto il test le diede la notizia mentre era insieme al marito e ai genitori. Sara era impietrita. La madre, che aveva perso la sua migliore amica per un tumore al polmone, scoppiò a piangere. S
I medici volevano cominciare subito la terapia, e questo significava indurre il travaglio per far nascere il bambino. Sara e il marito, Rich, se ne stavano seduti da soli in una terrazza silenziosa davanti alla sala parto. Era un caldo lunedì del giugno 2007. Sara prese la mano di Rich e insieme cercarono di mettere a fuoco quello che avevano saputo. Sara aveva 34 anni. Non aveva mai fumato e non aveva mai vissuto con dei fumatori. Faceva attività fisica, aveva un’alimentazione sana. “Andrà tutto bene”, le disse Rich. “Ce la faremo. Sarà dura, certo, ma troveremo un sistema. Dobbiamo trovare la terapia giusta”. Ora bisognava pensare al bambino. “Ci guardammo”, ricorda Rich, “e prendemmo una decisione: ‘Oggi non c’è nessun tumore. In questo giorno il cancro non esiste. Sta per nascere nostra figlia. È un’emozione grandissima. E vogliamo goderci il nostro bambino’. Quel giorno, alle 2 e 55, nacque Vivian Monopoli. Pesava quasi tre chili e mezzo, aveva i capelli castani e ondulati come la mamma ed era perfettamente sana.
Il giorno dopo Sara fece le analisi del sangue e la tac. Il dottor Paul Marcoux, un oncologo, analizzò i risultati con lei e la sua famiglia. Spiegò che aveva un tumore del polmone a piccole cellule che era partito dal polmone sinistro e non era stato provocato da nulla che lei avesse fatto. Era a uno stadio avanzato e aveva metastasi in vari linfonodi del torace. Il tumore non era operabile, ma c’erano diverse chemioterapie possibili, in particolare un nuovo farmaco, il Tarceva, che agisce su una mutazione genetica piuttosto frequente nel tumore al polmone delle donne non fumatrici. L’85 per cento dei pazienti risponde a questo farmaco e, aggiunse Marcoux, “alcune risposte possono essere a lungo termine”.
Espressioni come “risposta” e “a lungo termine” servono a nascondere sotto una patina rassicurante una realtà atroce. Non esiste una cura per il tumore ai polmoni a quello stadio. Anche con la chemioterapia, i pazienti sopravvivono in media circa un anno. Ma in quel momento sembrava crudele e inutile mettere Sara e Rich di fronte a questa realtà. Vivian era in una culla di vimini accanto al letto. Si stavano sforzando di essere ottimisti.
Sara cominciò la terapia con il Tarceva, che le fece venire uno sfogo pruriginoso simile all’acne e una stanchezza mortale. Si sottopose anche a un intervento chirurgico per drenare il liquido intorno al polmone. Ma il liquido continuava a formarsi, così alla fine le inserirono nel torace un piccolo tubo permanente che drenava il fluido ogni volta che si accumulava impedendole di respirare. Tre settimane dopo il parto, Sara fu ricoverata per una grave insufficienza respiratoria causata da un’embolia polmonare: un grumo di sangue in un’arteria che va ai polmoni, una complicanza piuttosto frequente nei malati di cancro. Cominciò una cura con un anticoagulante. Poi dalle analisi emerse che le sue cellule tumorali non avevano la mutazione su cui agisce il Tarceva. Quando Marcoux le disse che il farmaco non avrebbe funzionato, Sara ebbe un improvviso attacco di diarrea e dovette interrompere la conversazione per correre in bagno.
Il dottor Marcoux prescrisse una chemioterapia più tradizionale, a base di due farmaci, il carboplatino e paclitaxel. Ma il paclitaxel scatenò una reazione allergica molto violenta, quasi letale, così Sara passò a un regime di carboplatino più gemcitabina. Le percentuali di risposta, spiegò il dottore, erano ancora ottime nei pazienti sottoposti a questa terapia. Sara passò il resto dell’estate a casa, con Vivian, il marito e i genitori, che si erano trasferiti da lei per aiutarla. Adorava fare la madre. Tra un ciclo e l’altro di chemio, cercava di rimettere insieme la sua vita. Poi, a ottobre, una tac mostrò che le aree tumorali nel polmone sinistro, nel torace e nei linfonodi erano sensibilmente cresciute. La chemioterapia non aveva funzionato. Si passò a un altro farmaco, il pemetrexed, che secondo alcuni studi può assicurare una sopravvivenza anche più lunga in determinati casi. Ma in media questo farmaco allunga la vita di soli due mesi, e solo nei pazienti che, a differenza di Sara, rispondono alla chemioterapia di prima linea.
Sara si sforzava di reagire con pazienza alle ricadute e agli effetti collaterali. Era una persona positiva e riusciva a conservare l’ottimismo. Poco a poco, tuttavia, le sue condizioni si aggravarono: era sempre più affaticata e aveva difficoltà a respirare. A novembre non riusciva più ad andare a piedi dal parcheggio allo studio di Marcoux. Rich doveva spingerla nella sedia a rotelle.
Qualche giorno prima della festa del Ringraziamento le fecero un’altra tac e fu chiaro che non funzionava neppure il pemetrexed. Il tumore si era esteso dalla sinistra alla destra del torace e aveva raggiunto il fegato, il peritoneo e la colonna vertebrale. Il tempo si stava esaurendo. Questo è il momento della storia di Sara che pone un interrogativo fondamentale nell’era della medicina moderna: cosa devono fare ora Sara e i suoi medici? E se foste voi ad avere un tumore metastatico, cosa vorreste che facessero i vostri medici?
La questione è diventata pressante, negli ultimi anni, per ragioni di spesa. Negli Stati Uniti l’aumento dei costi dell’assistenza sanitaria è la minaccia più grave alla solvibilità a lungo termine del paese, e la cura dei malati terminali ne è in buona parte responsabile. Il 25 per cento di tutta la spesa di Medicare è assorbita dal 5 per cento di pazienti che stanno vivendo il loro ultimo anno di vita, e una buona fetta di quei soldi è destinata agli ultimi due mesi, apparentemente con scarsi benefici.
Lasciar andare
Nei casi di cancro, la spesa tende a seguire uno schema particolare. I costi sono alti all’inizio del trattamento e poi, se tutto va bene, si riducono. Nel 2003, per esempio, le cure per una donna guarita dal tumore al seno costavano in media 54mila dollari, spesi in gran parte per le analisi diagnostiche iniziali, l’intervento chirurgico e, se necessario, le radiazioni e la chemioterapia. Ma se la malattia ha un esito fatale, la curva dei costi è a forma di U, perché sale di nuovo nell’ultimo periodo, per una media di 63mila dollari negli ultimi sei mesi di vita nel caso di un tumore al seno incurabile. Il sistema sanitario statunitense è efficientissimo quando cerca di allontanare la morte con una chemioterapia da ottomila dollari al mese o una terapia intensiva da tremila dollari al giorno. Ma alla fine la morte arriva comunque, e nessuno sa bene quando fermarsi.
L’argomento sta emergendo a livello nazionale soprattutto come una questione di chi dovrebbe “vincere” quando vengono prese le decisioni più costose: gli assicuratori e i contribuenti che pagano il conto o il paziente che combatte per la sua vita? I falchi del bilancio fanno notare che non ci si può permettere tutto. I demagoghi agitano i fantasmi dei razionamenti e fanno paragoni con le commissioni della morte. I puristi del mercato danno la colpa alle assicurazioni: se i pazienti pagassero di tasca loro, dicono, il prezzo delle terapie scenderebbe. Ma il punto è un altro. Per capire perché il sistema sanitario non è capace di gestire in modo efficace i malati terminali, dobbiamo osservare da vicino come vengono prese le decisioni terapeutiche.
Qualche settimana fa, visitando un paziente ricoverato in una unità di terapia intensiva del mio ospedale, mi sono fermato a parlare con la dottoressa di turno, che conosco dai tempi del college. “Dirigo un deposito per i moribondi”, mi ha detto tetra. Dei dieci pazienti ricoverati nella sua unità, solo due avevano qualche probabilità di lasciare l’ospedale per un periodo ragionevolmente lungo. Un esempio tipico era una donna di quasi ottant’anni affetta da scompenso cardiaco congestizio, in terapia intensiva per la seconda volta in tre settimane, stordita dai farmaci e con tubi in gran parte degli orifizi naturali più alcuni artificiali. Oppure la settantenne con un tumore e metastasi ai polmoni e alle ossa, e una polmonite fungina che si manifesta solo nella fase terminale della malattia. Aveva deciso di rinunciare alla terapia, ma l’onco-logo le aveva fatto cambiare idea ed era stata attaccata a un ventilatore e messa sotto antibiotici. Un’altra donna di più di ottant’anni, con un’insufficienza respiratoria e renale in fase terminale, era ricoverata nell’unità da due settimane. Il marito era morto dopo una lunga malattia, con un tubo per l’alimentazione e una tracheotomia, e lei aveva detto di non voler morire in quel modo. Ma i figli non si decidevano a lasciarla andare, e avevano chiesto di tentare diverse procedure: una tracheotomia permanente, un tubo per l’alimentazione più un catetere venoso centrale per la dialisi. Ora giaceva incatenata alle sue pompe, in uno stato di semi-coscienza.
Quasi tutti questi pazienti sapevano da tempo di essere malati terminali. Eppure non erano preparati alla fase finale, e non lo erano nemmeno le famiglie e i medici. “Oggi ci occupiamo molto di più di quello che i pazienti vogliono per la fine della loro vita”, mi ha detto la mia amica. “Ma lo facciamo comunque troppo tardi”. Nel 2008 il progetto nazionale Coping with cancer ha pubblicato uno studio in cui dimostra che i pazienti in fase terminale che venivano messi sotto ventilazione meccanica, sottoposti a defibrillazione elettrica e compressioni toraciche o ricoverati nelle unità di terapia intensiva, nell’ultima settimana avevano una qualità di vita molto peggiore rispetto a chi non riceveva questi trattamenti. E sei mesi dopo la morte, le persone che li avevano assistiti correvano un rischio tre volte maggiore di cadere in una grave depressione. Per molti malati terminali, passare gli ultimi giorni in un’unità di terapia intensiva è una sorta di fallimento. Se ne stanno lì attaccati a un ventilatore, mentre gli organi cedono uno dopo l’altro e la mente vacilla sull’orlo del delirio, e non si rendono neanche conto che non lasceranno mai quel luogo estraneo e fluorescente. La fine arriva e non possono neppure salutare i propri cari, dire “Non importa”, “Mi dispiace” o “Ti voglio bene”.
Le persone hanno altre preoccupazioni oltre a quella di prolungare la loro vita. Gli studi sui malati terminali dimostrano che non vogliono solo evitare le sofferenze, ma anche stare insieme alla famiglia, sentire il contatto degli altri, rimanere lucidi e non essere un peso per chi gli sta vicino. Il sistema sanitario statunitense è totalmente incapace di soddisfare questi bisogni, e il prezzo di questa incapacità non può essere misurato solo in dollari. La cosa più difficile non è come rendere economicamente sostenibile il sistema: è costruire un’assistenza sanitaria che aiuti i pazienti moribondi al più ottenere ciò che è piu importante per loro alla fine della vita.
Fino a non molto tempo fa, morire era un processo rapido. Che la causa fosse un’infezione, un parto difficile, un infarto o una polmonite, spesso l’intervallo di tempo tra la diagnosi di una malattia mortale e la morte stessa era questione di giorni o settimane. Oggi, invece, le malattie brevi con esiti fatali sono l’eccezione. Per la maggior parte di noi, la morte arriva dopo un lungo corpo a corpo medico con una condizione incurabile: tumore avanzato, insufficienza progressiva di un organo o tutte le debilitazioni della vecchiaia. In tutti questi casi, la morte è certa, ma i tempi no. E tutti lottano con questa incertezza: come e quando accettare che la battaglia è persa.
Questione di priorità
Un venerdì mattina decido di andare a fare il giro dei pazienti insieme a Sarah Creed, un’infermiera specializzata dell’hospice gestito dal nostro ospedale. Non lo conosco bene, so solo che si occupa di fornire la terapia del dolore e cure palliative ai malati terminali, per lo più a casa loro. Il nome mi fa pensare a una flebo di morfina, invece mi ritrovo con un’infermiera dagli occhi azzurri a bussare alla porta di Lee Cox in una stradina silenziosa del quartiere Mattapan, a Boston.
“Salve, Lee”, dice Creed entrando in casa. “Ciao, Sarah”, risponde la signora Cox. Ha 72 anni e la sua salute è peggiorata già da qualche anno per uno scompenso cardiaco congestizio provocato da un infarto e dalla fibrosi polmonare, una malattia dei polmoni progressiva e irreversibile. I medici hanno cercato di rallentare il decorso con gli steroidi, ma la cura non ha funzionato. Lei ha continuato a entrare e uscire dall’ospedale in bicicletta, ogni volta in condizioni peggiori. Alla fine ha accettato il ricovero in una struttura di assistenza esterna e si è trasferita lì insieme a una nipote. La sua vita dipende dall’ossigeno e non è in grado di svolgere le più semplici attività quotidiane.
Mentre andiamo a sederci in cucina, Sarah prende gentilmente Lee sotto un braccio e le chiede come si sente. Poi le fa una serie di domande sui problemi che insorgono più spesso nei malati terminali. Ha dolori? Come va con l’appetito, la sete e il sonno? Problemi di confusione, ansia o irrequietezza? Le difficoltà respiratorie sono peggiorate? Ha dolore toracico o palpitazioni? Disturbi addominali, fastidi intestinali o problemi a urinare e camminare?
In effetti Lee ha dei nuovi problemi. Quando va dalla stanza da letto al bagno, ci mette almeno cinque minuti a riprendere fiato. Le fa male il torace. Creed prende dalla borsa lo stetoscopio e l’apparecchio per misurare la pressione. La pressione è accettabile, ma la frequenza cardiaca è alta. Le ausculta il cuore, che ha un ritmo normale, e i polmoni, sentendo il sottile crepitio della fibrosi ma anche un sibilo che prima non c’era. Le caviglie sono gonfie, e quando le chiede la scatola delle pillole si accorge che Lee ha finito le medicine per il cuore. Poi esamina l’apparecchio dell’ossigeno. La bombola ai piedi del letto è piena e funziona, ma il nebulizzatore per le inalazioni è rotto.
Considerando che non ha presole medicine per il cuore e non ha fatto le inalazioni, è normale che sia peggiorata. Creed chiama la farmacia per confermare che occorre un altro rifornimento, e prende accordi con la nipote di Lee perché passi a ritirare le medicine. Subito dopo chiama il fornitore del nebulizzatore perché venga in giornata. Poi si trattiene in cucina a chiacchierare per qualche minuto con la paziente. Lee ha il morale a terra. Sarah la prende per mano. Le dice che andrà tutto bene. Le ricorda le belle giornate che ha vissuto: il fine settimana precedente, per esempio, quando è andata a fare spese con la nipote e si è fatta tingere i capelli.
Quando usciamo, le confesso che mi sento confuso. Ho l’impressione che Sarah si stia dando da fare per prolungare la vita di Creed. L’obiettivo dell’hospice non è lasciare che la natura segua il suo corso? “No, l’obiettivo non è questo”, mi risponde. La differenza tra l’assistenza medica tradizionale e l’hospice non è che una cura e l’altro no. La differenza è nelle priorità. Nella medicina tradizionale l’obiettivo è prolungare la vita. Sacrifichiamo la qualità della vita ora- con interventi chirurgici, chemioterapia e terapia intensiva – nella speranza di guadagnare tempo in seguito. L’hospice si avvale di infermieri, medici e assistenti sociali per aiutare i malati terminali a vivere un’esistenza più piena possibile subito: cerca di combattere il dolore, di mantenere la lucidità mentale dei pazienti, di farli uscire con la famiglia ogni tanto. L’hospice e gli specialisti di cure palliative non si chiedono se tutto questo può allungare la vita dei pazienti.
Come molti medici, anch’io credevo che l’hospice affrettasse la morte, perché i pazienti rinunciano ai trattamenti ospedalieri e assumono forti dosi di narcotici contro il dolore. Ma i dati smentiscono questa tesi. Uno studio ha seguito 4.493 pazienti con tumore terminale o uno scompenso cardiaco congestizio. E non ha rilevato differenze nella sopravvivenza dei pazienti con tumore alla mammella, alla prostata e al colon. Anzi, l’hospice sembra allungare la vita di alcuni pazienti: quelli con tumore al pancreas guadagnano una media di tre settimane, quelli con tumore al polmone sei e quelli con scompenso cardiaco congestizio tre mesi. La lezione che se ne ricava è quasi zen: si vive più a lungo quando si smette di cercare di vivere più a lungo.
Quando Cox è arrivata all’hospice, i medici pensavano che le restassero poche settimane di vita. Grazie alla terapia di sostegno ricevuta in questa struttura, è già vissuta un anno.
Impreparati all’inevitabile
Poco prima della festa del Ringraziamento del 2007, Sara Monopoli, il marito Rich e la madre Dawn incontrarono il dottor Marcoux per discutere le opzioni ancora percorribili. Sara aveva già tentato tre chemioterapie, praticamente senza risultati. Forse ora Marcoux avrebbe potuto parlare con lei di cosa desiderava di più, visto che la morte si avvicinava. Ma Sara e la sua famiglia volevano discutere solo delle prossime terapie possibili. Non volevano parlare della morte.
Qualche settimana fa ho incontrato il marito e i genitori di Sara. Non avevano dubbi: Sara sapeva che la sua malattia era incurabile. La settimana dopo aver partorito aveva dato indicazioni chiare sull’educazione di Vivian dopo la sua morte. In più occasioni aveva ripetuto alla famiglia che non voleva morire in ospedale. Ma che potesse morire presto, che non ci fosse modo di rallentare la malattia, “non era un argomento che volessimo discutere”, ha detto sua madre.
Il padre Gary e la sorella gemella, Emily, si ostinavano a sperare nella guarigione. Secondo loro i medici non si davano abbastanza da fare. “Non riuscivo a credere che non ci fossero altre cure”, mi ha detto Gary. Rich era disorientato: “Avevamo una bambina, eravamo giovani. Era tutto assurdo e sconvolgente. Non abbiamo mai considerato la possibilità di interrompere le cure”.
Marcoux si rese conto della situazione. In quasi vent’anni di esperienza, aveva affrontato molte conversazioni come questa. È un uomo dall’aria calma e rassicurante che tende a evitare gli scontri o l’eccessiva intimità e si sforza di essere scientifico nelle decisioni. “So che la maggior parte dei miei pazienti è destinata a morire”, mi ha detto. Ma anche lui ha le sue speranze.
A un certo punto della conversazione Marcoux disse che la “terapia di sostegno” era un’ipotesi da prendere in considerazione. Ma, continuò, c’erano anche terapie sperimentali. La più promettente era un farmaco della Pfizer che agiva su una certa mutazione delle cellule tumorali. Sara e la sua famiglia puntarono immediatamente le loro speranze su questa terapia. Il farmaco era così nuovo che non aveva neppure un nome, solo un numero – PF0231006 – e questo lo rendeva ancora più allettante. Rimanevano alcune questioni da chiarire, in particolare il fatto che gli scienziati non avessero ancora messo a punto i dosaggi sicuri. Per di più, un test del farmaco sulle cellule tumorali di Sara non aveva dato nessun risultato. Ma Marcoux non li considerava ostacoli insormontabili: erano solo fattori negativi. Il punto cruciale era che, in base alle regole della sperimentazione, Sara non poteva sottoporsi al trattamento a causa dell’embolia polmonare comparsa durante l’estate. Avrebbe dovuto aspettare almeno due mesi. Nel frattempo, il medico consigliò di provare un’altra chemioterapia tradizionale, il Navelbine. Sara cominciò la terapia il lunedì dopo la festa del Ringraziamento.
Vale la pena di fermarsi un momento per valutare cosa stava succedendo. Passo dopo passo, Sara era arrivata a un quarto regime di chemioterapia, che aveva una minuscola probabilità di alterare il decorso della malattia e un’altissima probabilità di provocare effetti collaterali debilitanti. L’opportunità di prepararsi all’inevitabile era andata perduta. E tutto per una circostanza assolutamente normale: una paziente e una famiglia impreparati ad affrontare la realtà della malattia.
Ho chiesto a Marcoux cosa spera di ottenere per i pazienti con un tumore ai polmoni in fase terminale quando si rivolgono a lui per la prima volta. “Cerco di capire se riuscirò a strappare uno o due anni di vita abbastanza buona”, mi ha risposto. “Queste sono le mie aspettative. Secondo me il massimo che si può ottenere, per una paziente come lei, è da tre a quattro anni.” Ma non è quello che le persone vogliono sentirsi dire.
Il paziente ha sempre ragione
Si potrebbe pensare che i medici siano ben attrezzati per gestire questi casi, ma ci sono almeno due grossi ostacoli. In primo luogo, anche noi possiamo fare valutazioni poco realistiche. Un ricercatore di Harvard, Nicholas Christakis, ha chiesto ai medici di quasi 500 malati terminali di prevedere il tempo di sopravvivenza dei loro pazienti, e poi ha seguito l’andamento della malattia. Il 63 per cento dei medici ha sopravvalutato la speranza di vita dei malati. Solo il 17 per cento l’ha sottovalutata. In media le stime dei medici sono del 530 per cento troppo alte. E più i dottori conoscono i pazienti, maggiori sono le probabilità che sbaglino.
L’altro grande ostacolo è che spesso evitiamo di dare voce ai sentimenti. Lo dimostrano diversi studi: anche quando dicono che un tumore è incurabile, i medici evitano di formulare una prognosi precisa anche se gli viene chiesta. Oltre il 40 per cento degli oncologi ammette di offrire trattamenti che considera poco efficaci. Sempre più spesso oggi il rapporto tra medico e paziente viene definito, impropriamente, in termini commerciali: “il paziente ha sempre ragione”. Perciò i medici cercano in tutti i modi di non deludere le aspettative dei malati. Temono di essere troppo pessimisti invece che troppo ottimisti. Quando hai un paziente come Sara Monopoli, l’ultima cosa che vuoi fare è affrontare la verità. Lo so perché Marcoux non fu il solo a evitare questo discorso. Lo feci anch’io.
All’inizio dell’estate, una pet aveva rivelato che, oltre al cancro ai polmoni, Sara aveva anche un tumore alla tiroide che si era esteso fino ai linfonodi del collo. Fui interpellato per decidere se era il caso di tentare un’operazione. In effetti questo secondo tumore, non correlato al primo, era operabile. Ma ci vogliono anni perché un tumore della tiroide diventi letale. Sara sarebbe quasi sicuramente morta per il cancro ai polmoni prima che quello alla tiroide causasse problemi. Considerando l’entità dell’intervento chirurgico e le possibili conseguenze, la cosa migliore era non fare niente. Spiegare a Sara il mio ragionamento, però, significava affrontare la gravità del suo tumore ai polmoni, e non mi sentivo pronto a farlo.
Seduta nel mio studio, Sara non sembrava scoraggiata dalla scoperta di questo secondo cancro. Sembrava molto determinata. Aveva letto che il trattamento del tumore alla tiroide dà buoni risultati ed era pronta a discutere la data dell’operazione. E io fui contagiato dal suo ottimismo. E se avessi torto, mi dissi, e lei si rivelasse il paziente miracoloso che sopravvive a un tumore del polmone metastatico? Decisi di evitare completamente l’argomento. Dissi a Sara che il tumore alla tiroide era lento e curabile. Le spiegai che la priorità era il cancro al polmone e che era meglio non interrompere la terapia. Potevamo monitorare il tumore alla tiroide e programmare l’intervento di lì a qualche mese.
La vidi ogni sei settimane, e mi accorsi del suo declino fisico da una visita all’altra. Cancro al polmone e chemio facevano a gara nell’aggravare le sue condizioni. Dormiva gran parte del tempo e non metteva quasi piede fuori di casa. Le annotazioni cliniche di dicembre parlano di mancanza di respiro, conati di vomito, tosse con sangue e forte affaticamento. Oltre al tubo di drenaggio toracico, ogni settimana o due doveva sottoporsi a un drenaggio dell’addome per alleggerire la forte pressione esercitata dai litri di liquido che si formava’ no anche nella cavità addominale. A dicembre una tac evidenziò che il tumore al polmone si stava estendendo alla colonna vertebrale e al fegato. Quando ci rivedemmo a gennaio, poteva muoversi solo lentamente e con grande fatica. La parte inferiore del corpo era gonfia. Non riusciva a pronunciare più di una frase senza fermarsi a riprendere fiato. Dalla prima settimana di febbraio ebbe bisogno di una bombola d’ossigeno a casa per respirare. Ma era passato abbastanza tempo dall’embolia polmonare, e poteva sottoporsi al trattamento con il farmaco sperimentale della Pfizer. Aveva solo bisogno di un’altra serie di tac di controllo. E queste analisi rivelarono che il cancro si era esteso al cervello, con almeno nove metastasi in entrambi gli emisferi. Il farmaco sperimentale non era concepito per superare la barriera ematoencefalica. Il PF0231006 non avrebbe funzionato.
La dignità di lottare
Eppure Sara, i suoi familiari e l’équipe medica volevano continuare a combattere. Nel giro di 24 ore le fu fissato un appuntamento con un oncologo specializzato in radioterapia per un trattamento al cervello che avrebbe dovuto ridurre le metastasi. Il 12 febbraio, dopo cinque giorni di radioterapia, era totalmente spossata e quasi incapace di scendere dal letto. Mangiava poco e niente. Dall’autunno aveva perso 13 chili. Confessò a Rich che negli ultimi due mesi aveva avuto problemi di visione doppia e che non riusciva a sentirsi le mani.
Dopo le radiazioni ebbe due settimane per recuperare le forze. Poi le avrebbero somministrato un altro farmaco sperimentale di una piccola società di biotecnologia. L’inizio della nuova terapia era previsto per il 25 febbraio. Le sue possibilità stavano rapidamente diminuendo. Ma chi poteva dire che fossero zero?
Nel 1985 lo scrittore e paleontologo Stephen Jay Gould pubblicò un saggio straordinario intitolato The median isn’t the message. Tre anni prima gli era stato diagnosticato un mesotelioma peritoneale, un tumore raro e letale che di solito è associato all’esposizione all’amianto. Quando lo seppe, Gould andò in una biblioteca medica e tirò fuori gli ultimi articoli scientifici su questa malattia. “La letteratura non poteva essere più brutalmente esplicita: il mesotelioma è incurabile, con una sopravvivenza media di soli otto mesi dalla diagnosi”, scrisse. Fu distrutto dalla notizia. Poi cominciò a guardare i grafici delle curve di sopravvivenza dei pazienti.
Gould era un naturalista e tendeva a osservare le variazioni intorno al punto medio della curva piuttosto che il valore medio. E quello che vide fu una forte oscillazione. I pazienti non erano raggruppati intorno alla sopravvivenza media, ma si diramavano in entrambe le direzioni. Per di più la curva virava a destra, con una coda piuttosto estesa, anche se sottile, di pazienti che vivevano molto più a lungo della mediana di otto mesi. Fu questo dato a confortarlo. Poteva immaginare di sopravvivere fino all’estremità di quella lunga coda. E andò proprio così. Dopo un intervento chirurgico e una chemioterapia sperimentale, visse altri vent’anni prima di morire, nel 2002, a sessant’anni, per un tumore ai polmoni che non era correlato alla malattia originaria.
“È diventato un po’ troppo di moda considerare l’accettazione della morte come un fatto di dignità personale”, scrisse nel suo saggio del 1985. “Naturalmente sono d’accordo con l’Ecclesiaste quando dice che c’è un tempo per amare e un tempo per morire – e quando i miei giorni staranno per esaurirsi spero di affrontare la fine con calma e a modo mio. Ma nella maggior parte dei casi preferisco l’idea più marziale che la morte sia il nemico supremo, e non trovo nulla di riprovevole in chi lotta con determinazione perché la luce non si spenga”.
Penso a Gould e al suo saggio ogni volta che ho un paziente con una malattia terminale. Esiste quasi sempre una lunga coda di possibilità, per quanto sottile. Che c’è di male a cercarla? Nulla, credo, purché non smettiamo di preparare il paziente all’esito più probabile. Il problema è che abbiamo costruito il nostro sistema sanitario e la nostra cultura intorno alla coda lunga. Abbiamo creato un apparato multimiliardario per dispensare l’equivalente medico dei biglietti della lotteria, e abbiamo pochi, rudimentali strumenti per preparare i pazienti alla probabilità che quei biglietti non saranno vincenti. La speranza non è un progetto, eppure è il nostro progetto.
Per Sara non ci sarebbe stata una guarigione miracolosa, e quando la fine fu più vicina, lei e la sua famiglia non erano preparati. “Ho sempre voluto rispettare la sua richiesta di morire in pace a casa”, mi ha raccontato Rich. “Ma non credevo che saremmo riusciti ad accontentarla. Non sapevo come fare”.
La mattina di venerdì febbraio, tre giorni prima che cominciasse il nuovo ciclo di chemioterapia, Rich si svegliò e vide Sara seduta dritta accanto a lui con le braccia puntate in avanti e gli occhi sbarrati nello sforzo disperato di respirare. Era grigia e ansimava, il corpo si scuoteva a ogni rantolo. Sembrava che stesse affogando. Rich cercò di aumentare il flusso di ossigeno, ma non ci furono segni di miglioramento.
“Non ce la faccio”, disse Sara facendo una pausa tra una parola e l’altra. “Ho paura”. Rich non aveva un kit d’emergenza in frigorifero e neppure un’infermiera a cui telefonare. “Andiamo in ospedale”, le disse. Quando le propose di prendere la macchina, Sara scosse la testa, così chiamò il 911. Spiegò alla madre di Sara, che era nell’altra stanza, cosa stava succedendo. Qualche minuto dopo l’ambulanza arrivò a sirene spiegate. Mentre caricavano Sara, la madre si affacciò in lacrime.
“È tutto sotto controllo”, la rassicurò Rich. Era solo un altro viaggio in ospedale, si disse. I medici avrebbero fatto qualcosa. In ospedale, i dottori diagnosticarono a Sara una polmonite. Le fecero-una flebo di antibiotici e le somministrarono ossigeno ad alto flusso. La famiglia si riunì intorno al suo letto, sperando che gli antibiotici funzionassero. Poteva essere reversibile, ripetevano. Ma quella notte e la mattina se-guente la respirazione di Sara diventò sempre più affannosa.
“Non riesco a pensare a niente di buffo da dire”, le disse la sorella gemella, Emily, mentre i genitori le guardavano. “Neanche io”, mormorò Sara. Solo più tardi i familiari si resero conto che quelle erano state le sue ultime parole. Sara cominciò a perdere conoscenza. L’équipe medica aveva un’unica opzione: attaccarla a un ventilatore. Sara era una combattente, giusto? E per i combattenti il passo successivo è la terapia in-tensiva.
Questa è una tragedia moderna che si ripete milioni di volte. Quando non c’è modo di sapere esattamente quanto tempo ci resta- e crediamo di averne molto di più- il nostro impulso è combattere. Il fatto che forse stiamo abbreviando o peggiorando la vita che ci resta è del tutto irrilevante. Crediamo di poter resistere fino a quando i dottori ci diranno che non c’è nient’altro da fare. Ma è raro che i dottori non possano fare proprio niente. Possono darci dei farmaci tossici dall’efficacia sconosciuta, operarci per cercare di rimuovere una parte del tumore, inserirci un tubo per l’alimentazione se non riusciamo a mangiare: c’è sempre qualcosa. Vogliamo avere tutte queste possibilità. Non vogliamo che qualcuno abbia il potere di limitarle. Ma questo non significa che siamo impazienti di prendere le decisioni da soli. Di fatto, la maggior parte delle volte non prendiamo nessuna decisione. Ricadiamo nell’opzione di base: bisogna fare qualcosa. C’è un modo per uscire da questa situazione?
Due terzi dei malati terminali di cancro nello studio di Coping with cancer non avevano mai parlato con i medici delle priorità per l’ultimo periodo della loro vita, anche se, in media, erano a soli quattro mesi dalla fine. Ma il 30 per cento dei pazienti che aveva affrontato l’argomento era molto meno propenso degli altri a sottoporsi a rianimazione cardiopolmonare, a farsi attaccare a un respiratore o a finire in un reparto di te-rapia intensiva. I due terzi avevano scelto l’hospice. Questi pazienti hanno sofferto meno, sono rimasti fisicamente più efficienti e hanno potuto interagire meglio e più a lungo con gli altri. Sei mesi dopo la loro morte, inoltre, i familiari hanno avuto molte meno probabilità di cadere in una grave forma depressiva. In altri termini, i pazienti che avevano discusso con i medici curanti le loro preferenze per l’ultimo periodo di vita avevano più speranze di morire in pace e di risparmiare angoscia alla loro famiglia. Ma davvero basta un semplice colloquio per ottenere questi risultati?
Saper ascoltare
Un sabato mattina dell’inverno scorso ho incontrato una donna che avevo operato la notte prima. Si era sottoposta a un intervento per la rimozione di una cisti ovarica, ma durante l’operazione il ginecologo si era accorto che aveva un tumore metastatico al colon. Mi avevano chiamato, come chirurgo generale, per vedere cosa si poteva fare e io avevo rimosso un tratto di colon con una grossa massa cancerosa. Ma il tumore si era già diffuso parecchio. Non avevo potuto asportare tutto. Quella mattina ero andato a conoscerla. Aveva saputo da un medico che le avevano trovato un tumore e asportato parte del colon.
Sì, le risposi. Ero riuscito ad asportare “buona parte dell’area interessata”. Le dissi quanta parte dell’intestino era stata rimossa e come sarebbe stata la convalescenza: tutto, tranne la vera entità del tu-more. Poi mi ricordai di Sara Monopoli, di come ero stato timido con lei e di tutti i medici che non parlano chiaro. Così, quando mi chiese di essere più esplicito, le spiegai che il tumore si era esteso non solo alle ova-ie, ma anche ai linfonodi. Le dissi che non era stato possibile rimuovere tutto. “Faremo intervenire un oncologo”, mi affrettai ad aggiungere. “La chemioterapia può essere molto efficace in questi casi”.
Lei accolse la notizia in silenzio, fissando le coperte che coprivano il suo corpo ribelle. Poi mi guardò: “Vuol dire che morirò?”. Sussultai: “No, no. Certo che no”.
Qualche giorno dopo ci riprovai. “Non abbiamo ancora una cura”, precisai. “Ma le terapie possono bloccare la malattia per molto tempo”. L’obiettivo, le dissi “è prolungare la sua vita” il più possibile.
L’ho rivista più volte nei mesi successivi, mentre faceva la chemioterapia. Se la cavava bene. Per il momento il tumore è sotto controllo. Una volta ho chiesto a lei e al marito cosa pensassero della nostra pri-ma conversazione. Non la ricordavano con particolare piacere. “Quella frase che ha usato, ‘prolungare la sua vita’, è un po’…”. Non voleva sembrare critica.
“È stato piuttosto brusco”, ha detto il marito.
“L’ho trovato crudele”, gli ha fatto eco lei. Aveva avuto la sensazione che la stessi gettando in un burrone.
Ho raccontato questo episodio alla dottoressa Susan Block, una specialista di cure palliative del mio ospedale che ha avuto migliaia di queste conversazioni difficili ed è conosciuta in tutto il paese perché inse-gna ai medici e agli operatori sanitari come gestire i problemi della fase terminale insieme ai pazienti e alle famiglie. “Una riunione con la famiglia è una procedura vera e propria”, mi ha detto Susan. “E ci vuole la stessa preparazione che occorre per fare un intervento chirurgico”.
Uno degli errori di fondo dei medici è di tipo concettuale. Per loro, l’obiettivo primario di una discussione sulla malattia terminale è stabilire cosa vuole il paziente: se vuole la chemio, se vuole essere rianimato, se vuole l’hospice. Pensano soprattutto a esporre i fatti e le alternative. Ma questo è un errore, mi ha detto la dottoressa Block. “Il nostro compito è soprattutto aiutare i pazienti a gestire un’infinità di paure: paura della morte, paura di soffrire, paura per i propri cari, paura per i costi delle terapie”, mi ha spiegato. “Ci sono molte preoccupazioni e tanti terrori concreti”. Nessuna conversazione può affrontarli tut-ti. Arrivare ad accettare la propria mortalità e capire chiaramente i limiti e le possibilità della medicina è un processo, non una folgorazione improvvisa.
Non esiste un sistema unico per accompagnare un malato terminale attraverso questo processo, ma Block pensa che ci siano delle regole. Bisogna mettersi seduti e prendersi il tempo necessario. Non si tratta di stabilire se preferiscono il trattamento X o il trattamento Y. Si tratta di capire cosa è più importante per loro in queste circostanze in modo da poter fornire informazioni e consigli sull’approccio migliore per ottenere quello che vogliono. E per questo bisogna non solo parlare, ma anche ascoltare. Se parli per più della metà del tempo, vuol dire che stai parlando troppo.
La scelta delle parole conta. Secondo gli esperti, per esempio, non bisogna dire: “Mi dispiace che le cose siano andate così”. Può sembrare commiserazione. È meglio dire: “Vorrei che la situazione fosse diversa”. Non si deve chiedere: “Cosa vuole prima di morire?”, ma piuttosto: “Se non ci sarà tempo, qual è la cosa più importante per lei?”.
Block ha un elenco delle questioni che vuole affrontare con i malati terminali prima che si prendano le decisioni finali: quale pensano che sia la loro prognosi, quali sono le loro preoccupazioni per il futuro, chi vogliono che prenda le decisioni quando non saranno in grado di farlo personalmente, come vogliono vivere quando saranno rimaste poche opzioni, che genere di compromessi sono disposti ad accettare.
I medici svedesi la chiamano “discussione sul punto limite”: una serie di conversazioni sistematiche che gli servono per capire quando devono smettere di lottare per il tempo e cominciare a lottare per le altre cose che stanno a cuore ai pazienti.
Il trattamento intensivo, ripetiamo ai malati terminali, è un treno da cui si può scendere in qualunque momento: non dovete fare altro che dirlo. Ma per la maggior parte dei pazienti e delle famiglie è chiedere troppo. Restano lacerati dai dubbi, dalla paura e dalla disperazione. Spesso si fanno troppe illusioni sulle possibilità della scienza medica. Ma la nostra responsabilità, in medicina, è trattare con gli esseri umani così come sono. Le persone muoiono sole una volta. Non hanno un’esperienza da cu imparare. Hanno bisogno di medici e infermieri disposti ad affrontare le discus sioni difficili e a raccontare quello che han no visto. Hanno bisogno di qualcuno che aiuti a prepararsi all’inevitabile evitando di finire in una sorta di fabbrica dell’oblio che pochi vogliono davvero.
Niente di male
Sara Monopoli aveva avuto abbastanza colloqui perché l’oncologo e la sua famigli sapessero che non voleva morire in ospe dale o in terapia intensiva, ma non abba stanza da capire come raggiunger( quell’obiettivo. Dal momento in cui arrivo al pronto soccorso, quel venerdì mattina d febbraio, tutto andò nella direzione con traria a una fine pacifica. Ma c’era una per sona molto turbata da questa storia che( alla fine decise di intervenire: Chuck Morris, il suo medico di base. L’anno prima con il progredire della malattia, aveva lasciato che a prendere le decisioni fossero soprattutto Sara, la sua famiglia e l’équipe oncologica. Però aveva continuato a vedere regolarmente Sara e il marito ascoltando le loro preoccupazioni Quella mattina, Morris fu l’unica persona a cui Rich telefonò prima di salire in ambu lana. Lui andò dritto al pronto soccorso e accolse Sara e Rich quando arrivarono.
Morris disse che forse la polmonite en curabile. Ma poi aggiunse: “Temo che questa sia la fine. Sono davvero preoccupate per lei”. E chiese a Rich di riferire alla famiglia la sua opinione.
Poi Morris parlò con Sara e Rich e gli spiegò che il tumore l’aveva indebolita e che ora il suo corpo faticava a combatter( l’infezione. Gli antibiotici potevano bloc care la polmonite, disse, ma dovevano ri cordarsi che non c’era nulla in grado d fermare il cancro.
Sara aveva un aspetto terribile, mi ha raccontato Morris. “Le mancava il fiato Faceva male a guardarla. Ricordo ancora i medico di turno”, mi ha detto riferendosi all’oncologo che l’aveva ricoverata per curare la polmonite. “Era nervoso e quasi spaventato. Ed è uno che ne ha viste tante”.
Quando arrivarono i genitori di Sara, Morris parlò anche con loro, e alla fine Sara e la sua famiglia concordarono un piano. L’équipe medica avrebbe continuato con gli antibiotici, ma se la situazione fosse peggiorata non l’avrebbero attaccata a un respiratore. Gli permisero anche di chiamare l’équipe delle cure palliatine per una visita. L’équipe prescrisse una piccola dose di morfina che rese immediatamente più agevole la respirazione. I familiari videro come erano diminuite le sofferenze di Sara e improvvisamente decisero che non volevano più farla soffrire. La mattina dopo furono loro a fermare i medici.
“Volevano metterle un catetere, farle una serie di altre cose”, mi ha detto la madre. “Io dissi: ‘No. Non fatele niente’. Non m’importava se aveva bagnato il letto. Volevano fare delle analisi di laboratorio, mi-surarle la pressione, la glicemia. Non m’importava niente delle loro cartelle. Andai a cercare la caposala e le dissi di smetterla”.
Nei tre mesi precedenti, quasi nulla di quanto avevano fatto a Sara – la chemioterapia, le tac, le analisi e le radiazioni – era servito a qualcosa tranne a farla stare peggio. Forse sarebbe addirittura vissuta più a lungo senza tutti quei trattamenti. Almeno alla fine è stata risparmiata.
Quel giorno, mentre il suo corpo continuava a cedere, Sara perse conoscenza. Per tutta la notte seguente, ricorda Rich, “ci fu quel lamento terribile”. Non si può abbellire la morte. “Non so se fosse l’inspirazione o l’espirazione, ma era orribile, veramente orribile da ascoltare”. Il padre e la sorella pensavano ancora che potesse riprendersi. Ma quando gli altri uscirono dalla stanza, Rich s’inginocchiò a piangere accanto a Sara e le bisbigliò all’orecchio. “Non c’è niente di male a lasciarsi andare. Non devi più combattere. Ci rivedremo presto”. Quella mattina la sua respirazione rallentò. Alle 9.45, racconta Rich, “Sara ebbe una specie di spasimo. Emise un profondo respiro e poi non si mosse più”.
Atul Gawande è un medico, chirurgo e giornalista statunitense. Pubblicamente, è conosciuto come un esperto nella riduzione degli errori, nel miglioramento della sicurezza e nell'aumento dell'efficienza delle sale operatorie. Ricopre il ruolo di chirurgo generale ed endocrinologo al Brigham and Women Hospital di Boston ed è direttore associato del “Centro per la Chirurgia e la salute pubblica”. Collabora con la Harvard School of Public Health e occupa il ruolo di professore di chirurgia alla Harvard Medical School. Atul Gawande è, inoltre, uno scrittore e un giornalista: pubblica molti articoli sulla medicina e sulla sanità pubblica statunitense per il The New Yorker dov'è pubblicato questo articolo.