Tradimento, parola di largo consumo fra Germania e Italia - Le deportazioni dei militari italiani in Germania
Tornando a quei primi tragici anni Quaranta, ecco un bersaglio italiano preso di mira dai pregiudizi tedeschi.
Si tratta degli internati militari, circa seicentomila soldati e ufficiali che all'indomani dell'otto settembre furono disarmati e avviati ai campi di lavoro in Germania o in altre parti d'Europa occupate dai nazisti.
La loro condizione giuridica era ambigua, prima della dichiarazione di guerra del 13 ottobre non erano protetti dalla convenzione di Ginevra che imponeva regole di trattamento per i nemici prigionieri.
Del resto nemmeno più tardi il Reich riconobbe loro lo status di prigionieri di guerra. Per tutta la durata del loro internamento, venti interminabili mesi per chi fu deportato subito dopo l'armistizio, vissero un'esperienza crudele. Soltanto in piccola parte accettarono, di fronte al dilemma “o con noi o al lavoro forzato”, di riprendere le armi al fianco della Wehrmacht.
Tutti gli altri rifiutarono, praticando così quella che si chiamerà resistenza disarmata. Erano visti come spergiuri, trattati con ben pochi riguardi, costretti a faticosissimi lavori nell'industria degli armamenti bersagliata dalle incursioni aeree e nello sgombero delle macerie, malamente sorretti da una dieta insufficiente. Non a caso fu altissima la mortalità nei campi di lavoro.
La loro vicenda è ricordata nel centro di documentazione NS-Zwangsarbeit, aperto nel 2006 nel quartiere berlinese di Schöneweide
Se avessero conosciuto gli argomenti di Kuby, i militari internati avrebbero certamente addebitato il tradimento, come lui, alla controparte tedesca. Che non diversamente da Arminio li aveva ingannati, e portati a morire nella selva di Teutoburgo.
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