Le conquiste della donna sovietica e le sconfitte dell'ex sovietica

Nel 1917  nei giorni della Rivoluzione d'Ottobre viene concesso il diritto di voto alle donne ben prima di molti altri Stati. Uguaglianza di genere in tutte le sfere della vita pubblica. Una coraggiosa sfida alle tradizioni secolari profondamente radicate nella società russa. L’esperienza dell’Unione Sovietica è riconosciuta come la più storicamente importante e anticipatrice tra i movimenti di liberazione della donna. L'Urss si è dissolta trent'anni fa (26 dicembre 1991). Cosa è cambiato per la donna nella Russia "capitalista"?

DONNA SOVIETICA 4Il merito è dell’operaista Aleksandra Michajlovna Demontovich , in prime nozze sposata Kollontaj, che nell’ottobre del 1917 Lenin nominò ministro all’Assistenza sociale, e che poi fu la prima ambasciatrice donna in Europa e nel mondo. Ella è passata alla Storia per essere stata la prima donna a coniugare rivoluzione operaia e rivoluzione sessuale. Era decisamente convinta che la discriminazione della donna si sarebbe facilmente risolta con il suo ingresso nel mondo del lavoro, ” dove la donna della classe operaia è padrona dei mezzi di produzione e di distribuzione, partecipa alla loro gestione e ha l’obbligo di lavorare alle stesse condizioni di tutti i membri della società lavoratrice”. Naturalmente, “questa uguaglianza è realizzabile solo dopo la distruzione del sistema capitalista e la sua sostituzione con forme economiche comuniste”.

Anche prima della Rivoluzione d'Ottobre, e ancor più dopo, il quadro giuridico e la vita quotidiana delle donne furono profondamente modificati. Migliaia di iniziative locali, lanciate e incoraggiate dalle autorità bolsceviche, moltiplicarono le maternità e gli asili nido. Sebbene con tutti i limiti di un Paese in guerra e sprovvisto di tutto, l'obiettivo era quello di liberare le donne dai compiti domestici (cura dei bambini, cucinare, pulire...) grazie alle istituzioni collettive (case comunali, mensa, asili infantili...). Di lì a poco la Nuova Russia celebrava l'8 marzo, come "il giorno della ribellione contro la schiavitù della cucina".

Dal punto di vista giuridico, nel dicembre 1917, un decreto secolarizzò il matrimonio, stabilì la parità tra i coniugi, eliminò la differenza tra figli legittimi e illegittimi, facilitò il divorzio. Nel 1920 fu legalizzato l'aborto. La donna venne riconosciuta alla pari dell'uomo, nei diritti, nel lavoro, e nel servizio militare. Scrive la ministra Kollontai: “ La famiglia cessa di essere una necessità, poiché distoglie le donne dai lavori che sono utili alla società nel suo insieme. La donna non è più indispensabile nella realtà familiare, poiché è lo Stato si fa gradualmente carico di una gran parte delle sue incombenze. "

La Storia dimostrerà che nel Paese dei Soviet questo primato non sarà raggiunto, poiché l’opinione pubblica se così si può dire, non era stata educata al nuovo ruolo della donna. Nemmeno era stato approfondito il problema della parità nel campo della distribuzione dei compiti domestici. Tuttavia, siccome il grado d’istruzione e di occupazione femminili erano molto alti, s’era diffusa nel mondo la convinzione che la donna sovietica avesse ottenuto la piena uguaglianza. Così non era. Anzi per essere nel vero, s’era esasperato il divario tra l’emancipazione della donna nel mondo del lavoro, e la sua condanna ad essere l’angelo del focolare, come la tradizione russa impone. Sicché anche nell’URSS il tema della compatibilità tra famiglia e tempi di lavoro era rimasto un nodo difficile da sciogliere. Tant’è che i sociologi sovietici — già negli anni Settanta — dovettero ammettere che il socialismo non era ancora riuscito ad avviare una “trasformazione radicale della vita domestica”.

Resta comunque il fatto che nel 1926, morto Lenin e con la Kollontaj ambasciatrice nel lontanissimo Messico, l’Unione Sovietica era riuscita a dotarsi di un avanzatissimo diritto di famiglia, che all’epoca non aveva uguale nel mondo. A partire dalla Rivoluzione d’Ottobre molte donne adottarono atteggiamenti e abiti “maschili”, almeno nei centri urbani. Era regola per i bolscevichi darsi un aspetto e un fascino marziale, che richiamassero i valori del soldato combattente. Era un “messaggio” politico al quale le donne non potevano sottrarsi se volevano preservare la parità di genere. Ragion per cui via alla gonna ampia e al grande cappello a fiori, e full immersion nel modello bolscevico che voleva trasformare ogni donna russa in un attivista e pertanto la descriveva energica, rude verso se stessa e verso gli altri, disponibile fino al sacrificio estremo, come gli uomini insomma.

Questa “mascolinità” imposta o scelta, si rivela - a volte - come una via di scampo, o meglio come la possibilità di vivere nello stesso tempo “due vite diverse”. Da una parte la consapevolezza di poter disporre degli stessi diritti degli uomini. Dall’altra parte l’opportunità di potersi staccare dagli obblighi tradizionalmente associati alla femminilità. Di questa conquistata libertà di agire nel politico al pari degli uomini, spinse più di qualcuna di esse a crearsi nuovi margini di libertà davvero impensabili. Discretamente, fino alla metà degli anni Trena, il regime chiuderà gli occhi sulle lesbiche, purché svolgessero il ruolo che era stato assegnato alle donne nella costruzione del socialismo.

Naturalmente, nella gestione politica l'uguaglianza di genere mostrò tutti suoi limiti. La storia indica pochissimi nomi di leader bolscevichi donne: l’unica eccezione - Kollontaj - conferma la regola. La presenza femminile è rara anche nelle alte sfere dello Stato, dell'Internazionale Comunista e nella direzione degli altri PC. I movimenti socialisti e comunisti riflettono la mentalità “borghese” dell'epoca, e benché la classe operaia avesse conquistato il potere la mentalità  non era cambiata.

Le donne erano le benvenute sul posto di lavoro (come nell'esercito, secondo la tradizione militare russa), e libere di svolgere i compiti solitamente maschili, a condizione che adempiessero alla loro funzione di madre di famiglia.  Le piccole e le grandi conquiste della donna sovietica furono definitivamente seppellite nel 1944 da Stalin, al quale con la Russia invasa dai tedeschi fu facile abolire l’aborto, riposizionare la famiglia tradizionale alle fondamenta dello Stato, esaltare le funzioni materne e condannare le donne omosessuali alla damnatio in vita.

Insomma, era bastata la minaccia racchiusa negli ukaze di Stalin per dimostrare come le leggi, seppure necessarie e seppure emancipatrici sul ruolo della donna come quelle emanate dai legislatori sovietici , non riescano - ancora oggi - ad assicurare mutamenti duraturi se non si radicavano nella rivoluzione dei costumi, come Aleksandra Kollontaj andava predicando cento anni fa. Resta comunque il fatto che l’esperienza dell’Unione Sovietica rappresenta il contributo storico concreto più importante tra i movimenti di liberazione della donna.

Naturalmente, dai tempi della Rivoluzione d’Ottobre passi ne sono stati compiuti nel mondo Occidentale, ma il percorso delle donne verso una parità di genere è ancora un quadro in movimento sull’intero pianeta, e tutto sommato non ancora definito in Italia come altrove. E’ un problema di cultura tuttora insoluto che riguarda — è un esempio tra i tanti — il tasso di presenza delle donne nella politica, nel mondo delle istituzioni, nel mercato del lavoro.

Le donne, ancora oggi, scarseggiano a livello locale e nelle leadership di partito, indice di una presenza in politica ancora poco radicata. Nel mondo del lavoro ci sono non pochi ostacoli allo sviluppo dell’occupazione femminile, che vanno dalla carenza dei servizi di sostegno alle madri che lavorano, ai salari differenziati tra le donne e gli uomini che si sviluppano nonostante i divieti di discriminazione, ma che hanno come effetto quello di influenzare le scelte di distribuzione dei carichi di incombenze all’interno della famiglia.

E’ tutto a svantaggio della donna, come accadeva nel secolo scorso. Forse addirittura di più. Almeno così lo è anche per moltissime donne dell’ex Unione Sovietica costrette a prendere in considerazione — nella “Russia capitalista” — persino il mercato della prostituzione domestica, semplicemente per arrotondare le entrate, per accedere ad alcuni beni di consumo altrimenti impensabili.

 


 
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