L'Urss, i Russi e il «Crepaccio del Tempo»

Nel Paese governato da Putin il monastero Donskoj risorge alla grande nell’immaginario collettivo della società civile che da sempre affronta le vicende della Storia con la disperazione tragica, il furore degli estremi e la violazione dei limiti che rientrano nella tradizione del popolo russo.

donskoj 

L’arresto del patriarca Tikhon davanti all’ingresso del monastero Donskoj

Il monastero Donskoj è caro alla memoria dei moscoviti perché vi era vissuto Tikhon, il dodicesimo patriarca di tutte le Russie. Fu alle cinque del pomeriggio del dieci aprile del 1925 che lo videro per l’ultima volta, disteso nella piccola bara di legno di quercia sistemata nella cappella dedicata a san Sergio di Radonez, a destra entrando nella Cattedrale Grande del monastero.

Dentro c’era una folla di fedeli, l’ultima isola del vecchio mondo che la tempesta della Rivoluzione d’Ottobre aveva sconvolto e che le persecuzioni che si stavano succedendo rischiavano di cancellare.
Era una tribù disperata e silenziosa, unita dalla dignità di chi sapeva di appartenere a un mondo diverso e che all’improvviso si sentiva perduto.
Perché in un Paese in cui era stato capovolto ogni principio di potestà statale, politica e ideologica, Tikhon rappresentava l’unica forma di autorità riconosciuta da sempre come legittima nelle Russie: quella morale. Sicché, quando s’era sparsa la notizia della sua morte i fedeli si erano messi in cammino, e sfidando i controlli polizieschi erano arrivati fino al monastero, dove il Patriarca accusato di «attività controrivoluzionaria» vi era stato internato nel 1922.
Chi passa, sotto l’arco dove un tempo c’erano le porte Kaluzskie varcando le quali si entrava nella città di Mosca, e imbocca la via Donskaja cioè la strada che costeggia le mura del monastero, prima di giungere al portone su cui sbalza un’icona della Madonna di Kazan, incontra i mendicanti che oscillano ritmicamente la testa nel vento chiedendo l’elemosina in cambio di un santino.

Appena varcato il portone ci sono due chioschi nei quali si vendono i libri di devozione, i calendari, le spille e ovviamente ritratti del santo patriarca Tikhon che nel maggio del 1992 era stato innalzato agli onori degli altari.
Intorno, sullo spiazzo che porta alla Cattedrale Grande c’è sempre un via-vai di gente, poiché qui si concentra dai quattro punti cardinali di Mosca, qui s’impasta, si rimescola, nel grumo immobile -eppure si muove- d’una società che dopo l’implosione dell’Urss ambiva alla democrazia che ancora non si stanca di seguire.
Naturalmente nel mistero russo di una storia che sopravvive alle sue mutilazioni lo scenario del Donskoj si ripropone come un’ alternativa, una sorta di identità permanente: la radice spirituale del Paese, la sua memoria storica autentica che si riassume nel cimitero che stringe la Cattedrale Piccola e si stende fin sotto le mura. Con le ringhiere di ferro battuto, le croci, i bronzei catafalchi che raccolgono le spoglie dei nobili, dei ricchi mercanti, dell’intellighentja moscovita prerivoluzionaria.
Le sculture annerite e le lapidi ammuffite all’ombra dei tigli e dei castagni selvatici. La copia dell’icona della Madonna poi detta Donskaja (del Don) che il grande principe di Mosca Dmitri Ivanovich principe baciò prima di affrontare i Tatari a Kulikovo Pole nei pressi del fiume Don appunto dove vinse la prima grande battaglia per la liberazione della terra russa. Era l’anno 1380.
Ci sono sempre i fiori freschi sulla lapide di Jkov Sergheevic Polosov il segretario-cameriere di Tikhon, che la notte del 9 dicembre del 1923 si gettò su i due sicari che erano penetrati negli appartamenti patriarcali per assassinare il presule. Jkov gli fece scudo con il suo corpo e la pallottola sacrilega gli trapassò l’aorta fulminandolo. Fu sepolto vicino alla Cattedrale Piccola in modo tale che solo un muro lo separasse dalla tomba che il Patriarca aveva previsto per sé. Così volle Tikhon. «Lui resterà qui», rispose quando gli riferirono che il ministro Tuchov voleva trasferire la salma in un cimitero della periferia.
Insomma nel monastero Donskoj tutto scorre come nelle velate sequenze del cinema muto. La sensazione è di uno stato d’immobilità surreale, come se un intero popolo sia rimasto intrappolato in un crepaccio del tempo, fra l’interminabile tramonto del socialismo reale e il chiarore dell’alba di una giornata politica che nessuno riesce ancora a configurare.
Che il compito fosse arduo era chiaro a tutti, russi e non russi. Bisognava agire su vari versanti allo stesso tempo: frantumare il vecchio, costruire il nuovo e mostrarsi credibili agli occhi dell’Occidente. Vladimir Putin, l’ex spia della Guerra Fredda, ha basato la sua politica sul gas e sul petrolio mettendo fine al passaggio sotto controllo straniero delle risorse naturali russe. Lo sfruttamento del petrolio e il Gazprom hanno riempito le casse del Tesoro, ma la rinazionalizzazione è stata fatta nell’arbitrio più assoluto, piegando la stampa e i suoi oppositori.
I nuovi ricchi sono una categoria sempre più evidente, mentre aumenta la massa dei nuovi poveri. La corruzione imperversa e con essa la criminalità. Il “danaro” s’impone come valore preminente. E così, dopo tante pagine intense e angosciose di sconvolgimenti politici, di guerre per bande, la popolazione si ritrova con gli stessi mali di ogni società globalizzata.
In questo scenario nel quale uno dei messaggi più diffusi è quello, che sottolinea l’inutilità di fare affidamento sull’esperienza del passato e l’incapacità di poter prevedere le linee guida del futuro, il principio stesso di autorità (intesa come stima, autorevolezza derivante da superiorità morale, intellettuale, da competenza, dalla tradizione) si deteriora.
Invece si rafforza il principio della “contrattualità”, poiché la logica del profitto genera una società puramente commerciale dove, come ha scritto Pierre Leroux, «gli uomini non associati non sono soltanto estranei tra loro, ma necessariamente rivali e nemici».
Putin sa benissimo che perpetuare la repressione del dissenso il suo sistema di potere rischia di non resistere ancora per molto, anche se come raccomandava Tocqueville, «il momento più pericoloso per un cattivo governo è quando prova a cambiare».
Nell’attesa che qualcosa finalmente accada, si sta radicando il pessimismo in quella parte illuminata della società civile di un Paese che da sempre affronta le vicende della Storia con la disperazione tragica, il furore degli estremi e la violazione dei limiti che rientrano nella sua tradizione.
Così meglio di ogni altro luogo, il monastero Donskoj può fare da fondale a questa tormentata, abbagliante, vertigine collettiva. Tra quelle mura aggredite dal tempo e dai vandali i credenti vi avevano cercato riparo con tenacia, con forza, con disperazione, sempre arretrando, sempre allontanandosi di un passo dall’ombra dei persecutori, a volte fino a inabissarsi pur di far sopravvivere la speranza. Che in quel “crepaccio del tempo” i loro figli si illudono di ritrovare.

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Vincenzo Maddaloni
Vincenzo Maddaloni ha fondato e presiede il Centro Studi Berlin89, l'associazione nata nel 2018, che si propone di ripercorrere analizzandoli i grandi fatti del mondo prima e dopo la caduta del Muro di Berlino. Professionista dal 1961 (per un decennio e passa il più giovane giornalista italiano), come inviato speciale è stato testimone in molti luoghi che hanno fatto la storia del XX secolo. E’ stato corrispondente a Varsavia negli anni di Lech Wałęsa (leader di Solidarność) ed a Mosca durante l'èra di Michail Gorbačëv. Ha diretto il settimanale Il Borghese allontanandolo radicalmente dalle storiche posizioni di destra. Infatti, poco dopo è stato rimosso dalla direzione dello storico settimanale fondato da Leo Longanesi. È stato con Giulietto Chiesa tra i membri fondatori del World Political Forum presieduto da Michail Gorbačëv. È il direttore responsabile di Berlin89, rivista del Centro Studi Berlin89.

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