Le multinazionali pronte a decidere l'uso di Venezia

La Biennale del 2021, celebrata come momento prezioso e significativo per la rinascita culturale della città”, ha visto l’arrivo di molti investitori “smaniosi di aiutare Venezia ed ognuno di loro è stato ricompensato con generosità dagli amministratori della Biennale e dalle pubbliche istituzioni locali”Il tentativo delle multinazionali di ammantare le proprie campagne pubblicitarie di una patina artistica, sta diffondendosi ovunque, è evidente che Venezia è una location irrinunciabile.

 CartierLa pubblicità di Cartier sulla facciata della chiesa della Madonna della Salute in Canal Grande/ Photo Paola Somma

È da poco uscito “Il Giardino e l’Arsenale”, un corposo volume nel quale Paolo Baratta racconta la storia della Biennale di Venezia, da lui presieduta dal 1998 al 2002 e poi dal 2008 al 2020. È un’occasione, si dice nella quarta di copertina, per rispondere alla domanda se sia possibile “fare cultura mediando efficacemente tra pubblico e privato”.

E in effetti, il rapporto tra pubblico e privato sembra la chiave di lettura più appropriata per ripercorrere le vicende degli anni durante i quali Baratta, in precedenza più volte ministro, è stato uno dei principali artefici della trasformazione di un ente pubblico in una impresa che deve operare con “autonomia e imprenditorialità”.

In molti punti l’autore sottolinea che tale obiettivo è stato raggiunto grazie ad una fitta rete di legami con i rappresentanti delle pubbliche istituzioni.
Illuminanti, a questo proposito, le modalità del suo reclutamento, così descritte: “in visita a una mostra di palazzo Grassi, incontrai il ministro ai Beni e alle attività culturali Walter Veltroni… l’incontro fu casuale e cordiale… il giorno dopo il ministro mi telefonò per chiedermi se ero disponibile ad assumere la presidenza della Biennale”.
Grande risalto viene dato anche alla sua abilità nell’ottenere finanziamenti pubblici, a partire dalle ingenti risorse destinate alla città dalla Legge Speciale per Venezia, che vennero in parte dirottate alla Biennale per consentirle di allargare i propri spazi, e alla sua determinazione nelle trattative con l’amministrazione locale, che gli consentì di “conquistare” Ca’ Giustinian (che il sindaco Cacciari avrebbe voluto vendere all’hotel Monaco di proprietà dei Benetton) e di allargarne il compendio occupando una porzione di Canal Grande. “Per completare l’opera” spiega Baratta “e quasi come omaggio alla città decidemmo di realizzare davanti a Ca’ Giustinian sullo specchio d’acqua antistante una piattaforma in legno con pontile che avrebbe offerto una vasta terrazza… la denominammo ‘campiello d’acqua’… con il ristorante affacciato all’esterno, con i visitatori, i turisti, i trasportatori e gli uomini di fatica… la sede della Biennale era partecipe alla vita della città”.

Con un tono che lascia pochi dubbi su chi, secondo Baratta, sia legittimato a decidere l’uso della città, il racconto alterna memorie personali, dati oggettivi e versioni deformate dei fatti. Se, ad esempio, rievocando la cena organizzata nel chiostro del cimitero di San Michele durante la Biennale Musica del 2011, osserva compiaciuto “mi stupii del fatto che avessimo ottenuto la concessione, potere della musica!”, a proposito della pineta storica distrutta dal Comune per fornire l’area per il nuovo palazzo del cinema al Lido (mai costruito) la sua versione è che il Comune ha “realizzato un grande e rinnovato spazio verde… qui la Biennale installò la ‘sala giardino’ a forma di cubo rosso.”

All’esaltazione della “ventata di modernità necessaria per aumentare la competitività” della Biennale si accompagna un non celato livore nei confronti dei cittadini che chiedono di poter usare gli spazi dei Giardini e dell’Arsenale, formalmente pubblici, e nei confronti dei lavoratori, fra i quali distingue un certo numero di dirigenti di alto valore e gli altri, che erano pubblici dipendenti e sono stati obbligati ad accettare il contratto nazionale del commercio. Le 479 pagine del volume non forniscono, invece, informazioni dettagliate sulla ripartizione dei costi e benefici tra pubblico e privato conseguente alla trasformazione della Biennale in un’impresa “finalmente gestita con criteri privatistici”, ma tuttora lautamente finanziata con soldi pubblici.

Lo statuto della Biennale non prevede l’ingresso di soci privati (i visitatori sono il nostro partner privato! dice Baratta) ma i privati possono erogare contributi sotto forma di sponsorizzazione, con modalità descritte nella sezione sponsorship del sito web che si rivolge alle aziende interessate a “investire per sostenere una o più manifestazioni “ e così acquisire “una serie di qualificati vantaggi in termini di visibilità e posizionamento”.

Con l’intento di attrarre i potenziali “benefattori” offrendo loro sostanziose contropartite, nel sito si sottolinea che collaborare con la Biennale significa “cogliere una straordinaria opportunità”, perché il successo dell’istituzione, certificato dai numeri tutti in aumento – visitatori, operatori, giornalisti – è “garanzia di un adeguato ritorno sull’investimento sostenuto”. 

 
Nessun dato, invece, è disponibile per valutare i vantaggi pubblici derivanti dagli accordi commerciali che la Biennale stipula con i privati investitori per dar loro “uno strumento di comunicazione e promozione di sicura efficacia”.
Non si dice se le cifre elargite dalle aziende corrispondano al valore di mercato dell’abbinamento del proprio brand a quello della Biennale e, soprattutto, si ignorano i vantaggi collaterali di cui godono gli sponsor, ai quali, in concomitanza con le manifestazioni patrocinate, viene ormai di regola concesso di usare, per i loro scopi, pubblici edifici e spazi della città, che neppure appartengono alla Biennale (almeno non di diritto).

Se il cosiddetto artwashing, cioè il tentativo delle multinazionali di ammantare le proprie campagne pubblicitarie di una patina artistica, sta diffondendosi ovunque, è evidente che Venezia è una location irrinunciabile. La Biennale del 2021, celebrata come momento prezioso e significativo per la rinascita culturale della città”, ha visto l’arrivo di molti investitori “smaniosi di aiutare Venezia ed ognuno di loro è stato ricompensato con generosità dagli amministratori della Biennale e dalle pubbliche istituzioni locali”.

Alla fine di maggio, ad esempio, il gruppo Valentino (di proprietà di Mayhoola, un fondo di investimento della famiglia dei reali del Qatar), che ha sponsorizzato la Biennale Teatro, ha comunicato di aver “scelto” di presentare la collezione autunno/inverno in una “location speciale, presso una città che rappresenta la più aulica summa di tutte le arti, della bellezza, della creatività”, senza peraltro specificare quale “tra gli splendidi edifici veneziani” sarebbe servito da sfondo. Solo a pochi giorni dall’evento, trasmesso in streaming in tutto il mondo, i cittadini hanno saputo che la sfilata avrebbe avuto luogo alle Gaggiandre “le scenografiche tettoie acquatiche dell’Arsenale” mentre il nuovo presidente della Biennale Roberto Cicutto che, inaugurando il festival, ha ringraziato Valentino, non ha ritenuto di dover chiarire se il noleggio degli spazi dell’Arsenale fosse incluso nel prezzo della sponsorizzazione.

Poi è arrivato Cartier, principale sponsor del festival del cinema. L’accordo è “molto positivo”, ha detto Cicutto (che anche in questo caso non ha reso noti i dettagli finanziari) perché Cartier ha “la capacità di bene interpretare una collaborazione con una istituzione culturale”.

Dal canto suo Cartier – che al momento di aprire la sua prima sede a Venezia, decise di installarsi nei locali dell’antica farmacia Centrale in campo San Zulian, una delle tante botteghe storiche spazzate dall’orda dei mecenati – ha dichiarato che l’iniziativa fa parte dei suoi “impegni duraturi volti a preservare l’identità culturale e a sostenere la produzione artistica contemporanea” e che “il festival ha eleganza, esclusività e glamour… e questo è esattamente quello su cui vogliamo costruire”. Cartier ha anche istituito un proprio premio per i migliori produttori, il Cartier glory to the film maker. Ai vincitori viene consegnata la statuetta di una pantera.
Non stupisce, quindi, che per molti giorni, le facciate delle chiese veneziane siano state ricoperte da giganteschi manifesti con la pantera di Cartier.   

Oltre che offrire pezzi di città ai grandi gruppi multinazionali per le loro campagne promozionali, la Biennale è disponibile come palcoscenico per le autocelebrazioni del padronato nazionale e locale. Il 10 settembre 2021, ad esempio, all’interno della sezione Venice Production Bridge dedicata ai professionisti dell’industria, è stato proiettato un cortometraggio dal titolo Centoundici. Donne e uomini per un sogno grandioso prodotto e realizzato da Confindustria che, per reagire al “senso di ostilità e di pregiudizio diffuso nei confronti della figura dell’imprenditore” ha deciso di “cambiare la narrazione sul mondo dell’impresa”.

Centoundici sono gli anni di Confindustria, mentre il sogno grandioso è quello illustrato da Carlo Bonomi che, assieme al sindaco di Venezia Luigi Brugnaro e al presidente Cicutto, ha presentato l’evento nei saloni dell’hotel Excelsior.

“Nel film trovano spazio i Valori con la maiuscola, dalla responsabilità verso i giovani alla responsabilità sociale in generale e verso i dipendenti… abbiamo voluto documentare il grande impegno dell’industria italiana che ha messo disposizione i luoghi di lavoro per i vaccini, diventando fabbriche di comunità, per contribuire alle esigenze del paese… chiediamo alla politica di prendersi le sue responsabilità e di non lasciare gli imprenditori da soli!” ha tuonato Bonomi che non ha perso l’occasione per criticare i provvedimenti anti delocalizzazioni. “Dobbiamo essere attrattivi verso gli investimenti esteri… prendere provvedimenti sull’onda delle emozioni non porta successi”.

Sul sito del comune di Venezia il film è stato definito “un omaggio al ruolo delle imprese italiane nel post pandemia” mentre sul sito di Confindustria si sono sottolineate “le analogie fra piano Marshall e piano di resilienza… le grandi crisi portano con sé anche grandi opportunità… bisogna farsi trovare pronti”. 
Unanime l’entusiasmo della stampa nazionale: “la cultura è il petrolio della nazione, dobbiamo essere bravi a metterla a reddito”; “la cultura, business che rinasce”.

E per restare in tema di “business che rinasce”, pochi giorni dopo il sindaco di Venezia, il presidente della Biennale, il ministro delle infrastrutture Enrico Giovannini, la commissaria del MOSE Elisabetta Spitz e la rettrice di Ca’ Foscari Tiziana Lippiello sono andati a Dubai a promuovere la candidatura di Venezia a “capitale della sostenibilità”. Inaugurando il padiglione Italia, il cui pezzo più significativo è una riproduzione in resina del David di Michelangelo (solo la parte superiore, le parti intime restano nascoste nel pavimento) “uno dei tanti elementi di promozione del made in Italy che potranno aiutare ad attrarre investimenti esteri e flussi turistici”, gli illustri relatori hanno parlato del MOSE, un’infrastruttura unica al mondo la cui peculiarità principale consiste nella “assenza di impatto visivo” nonché del progetto di tenere aperta la Biennale 365 giorni all’anno affiancando alle attuali manifestazioni una nuova Biennale della sostenibilità.

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Paola SommaPaola Somma è, da anni, la voce più radicale e lucida sulla situazione drammatica, e sul destino, di Venezia.  
Ha insegnato Urbanistica presso lo IUAV di Venezia ed è stata visiting professor all’Università Americana di Beirut.
Svolge ricerca indipendente con attenzione ai rapporti tra l’organizzazione fisica e la struttura economica e sociale del territorio. È membro del comitato editoriale della rivista «Open House International» e collabora a «Emergenza cultura» Fra le sue pubblicazioni Venezia Nuova (1983), Spazio e Razzismo (1991), Beirut: guerre di quartiere e globalizzazione (2000),  Privati di Venezia (2021).

 

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